L'addio a Boris Pahor, difensore della sacralità della vita e delle minoranze

Stamattina, a Trieste, l'estremo saluto allo scrittore sloveno, memoria storica della violenza fascista e degli orrori dei lager. Una cerimonia religiosa si è svolta presso il cimitero di Sant'Anna, dove era stata allestita la camera ardente. A lungo ignorato in un contesto politico dominato da ideologie contrapposte, negli ultimi decenni Pahor ha ottenuto un meritato riconoscimento non solo per le opere, ma anche per i valori di dignità e libertà di cui è stato testimone instancabile

Adriana Masotti - Città del Vaticano

“Io credo che, nonostante tutto il male, la vita sia valsa la pena perché ho potuto godere della bellezza dell’esistenza, perché ho amato e sono stato amato": così confidava Boris Pahor in un’intervista pubblicata nel 2003 sul quotidiano della minoranza slovena in Italia, Primorski dnevnik. Era, infatti, un uomo capace di “apprezzare anche il più piccolo frammento di vita". “Invidio coloro che, quando io non ci sarò più, potranno amare i fori e le donne - diceva ancora - coloro che potranno sentire il suono frusciante dei pini”. E la bellezza della natura, l’azzurro del mare, si poteva godere dalla sua casa di Barcola, in cui, dopo la morte della moglie, era rimasto a vivere da solo, fino a quando gli è stato possibile, e dove è morto lo scorso 30 maggio. Stamattina i funerali e la sepoltura nel principale camposanto di Trieste, il cimitero di Sant’Anna, alla presenza anche di autorità italiane e slovene. A benedire la salma anche l'arcivescovo della città, monsignor Giampaolo Crepaldi.

A 7 anni l'incendio della Narodni Dom a Trieste

Boris Pahor era nato a Trieste il 26 agosto 1913, aveva compiuto dunque abbondantemente i 108 anni. Una longevità straordinaria perseguita anche attraverso una vita sana nei ritmi e nelle abitudini quotidiane. Il dolore l’aveva incontrato presto: aveva solo 7 anni quando vide l’incendio, per opera degli squadristi fascisti, che ridusse in cenere la Casa del popolo, Narodni Dom, principale punto di riferimento della minoranza slovena della città. Fu quello un evento tragico, indimenticabile, fulcro della sua futura riflessione e attività. Il 13 luglio 2020, a 100 anni di distanza da quel rogo, Pahor ebbe la possibilità di partecipare alla riconsegna agli sloveni dell'edificio ricostruito. In quell'occasione ricevette le più alte onorificenze di Stato della Slovenia e dell'Italia.

Il rogo alla Narodni Dom nel 1920
Il rogo alla Narodni Dom nel 1920

L'esperienza dei lager e la testimonianza

Nel 1944, Pahor fu arrestato e torturato in quanto oppositore politico e deportato poi in 7 campi di sterminio nazista tra Francia e Germania. Sopravvisse e, una volta ritrovata la libertà, cominciò subito a mettere su carta la terribile esperienza vissuta. Dovranno però passare alcuni decenni per veder tradotti e pubblicati i suoi libri: in Italia il successo arrivò dopo i riconoscimenti ricevuti all’estero. Fino all’ultimo ha testimoniato, specie alle nuove generazioni, fin dove possono arrivare l’odio e il male, affermando la sacralità di ogni vita, il rispetto per se stessi e per il prossimo, il valore della democrazia e i diritti di tutte le minoranze.

"Con la morte di Boris Pahor è venuta a mancare un’autorevole personalità della minoranza slovena che vive in queste nostre terre, alla quale diede voce - ha scritto monsignor Crepaldi alla notizia della scomparsa - con la sua qualificata produzione letteraria tutta tesa a denunciare gli orrori del cosiddetto secolo breve, dalle guerre al nazionalismo esasperato, dalle violenze etniche ai totalitarismi ideologici. Lascia a Trieste la preziosa eredità di luminoso difensore della dignità umana e di testimone coraggioso della libertà". Mentre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva sottolineato, tra l'altro, che la sua morte "lascia un grande vuoto nella cultura europea". 

Un'immagine di Boris Pahor
Un'immagine di Boris Pahor

 

La difesa della libertà e della dignità umana ad ogni costo

Poljanka Dolhar vive a Trieste, laureata in slovenistica, è giornalista professionista e lavora al Primorski dnevnik. Ha avuto la fortuna di incontrare più volte lo scrittore stabilendo con lui anche un rapporto di amicizia. Sul quotidiano sloveno lo ricorda scrivendo tra l'altro: "Con la sua storia di vita ci ricorda dove porta anche la minima limitazione dei diritti personali. Ci mette in guardia contro i regimi autoritari, ci ricorda che il prezzo della libertà - per quanto banale possa sembrare - non è mai troppo alto da pagare". Nell'intervista a Vatican News, Dolhar ricorda alcuni tra i momenti centrali della vita e del pensiero di Pahor e sottolinea qual è l'insegnamento che ci lascia:

Ascolta l'intervista a Poljanka Dolhar

Poljanka Dolhar, per Boris Pahor l'incendio della Narodni Dom è stato, possiamo dire, un punto di non ritorno. Che cosa ha significato per la sua vita quel drammatico episodio?

Sicuramente per lui quello è stato il simbolo di un periodo, la sua infanzia, e spesso ripeteva che era diventato un po' il portavoce di tutti quelli ai quali era stata "rubata l'infanzia". Il Narodni Dom era una casa che da bambino lui frequentava e quindi vederla incendiata da una folla fascista sicuramente è stato un trauma. E credo che per lui poi l'incendio sia diventato anche il simbolo della lingua rubata perché solo due anni dopo, con le leggi fasciste, tutte le scuole non italiane vennero chiuse, quindi anche quelle di lingua slovena e si è visto costretto a frequentarne una italiana; questo passaggio per lui è stato un momento molto difficile.

Si parla poco degli internati non ebrei nei campi di sterminio nazisti, ma vittime di quella follia sono stati anche gli oppositori politici, i rom, i portatori di handicap. Boris Pahor ne ha conosciuti addirittura 7 e ha sentito poi la responsabilità di testimoniare quanto vissuto....

Si, assolutamente, soprattutto negli ultimi decenni quando ha conosciuto anche un successo internazionale, una delle sue maggiori preoccupazioni era proprio quella di parlare dei "triangoli rossi", come lui chiamava gli oppositori politici al nazifascismo e tra i quali era stato deportato. In un'intervista ha raccontato che aveva iniziato a prendere appunti sulla sua esperienza nei lager già nel sanatorio francese dove, nel 1945, si stava curando una volta liberato. Aveva sicuramente la smania di testimoniare: aveva paura che queste cose non fossero credute, che la gente le dimenticasse; quindi per tutta la vita ha cercato di fare da testimone e poi, come diceva lui stesso, solo molto più tardi ha capito che scriverle aveva anche un valore terapeutico per lui, per superare tutto quell'orrore che aveva vissuto. I moltissimi libri che ha scritto erano tutti molto realistici, poteva solo raccontare quello che aveva vissuto nella vita reale, perchè a lui la finzione non piaceva, diceva che non era capace di scriverla, aveva visto troppe cose brutte per inventarsene di altre.

Nonostante tutto quello che aveva visto, Boris Pahor mantenne sempre l'amore per la vita.. 

Senz'altro, forse anche come reazione a tutto quello che ha vissuto, aveva una grandissima voglia di libertà e di vita. Però penso che la sua vera forza fosse proprio questa necessità di raccontare e di testimoniare.

Fondamentale in Pahor il tema dell'identità culturale e linguistica. Il fascismo in Italia aveva proibito l'uso di lingue che non fossero l'italiano. Ci è capitato anche di recente in Europa di veder affermarsi in politica e nelle società tesi sovraniste, l'antipatia per il diverso, l'avversione verso l'immigrato. Che cosa pensava Pahor di questo fenomeno?

A questo proposito posso raccontare una cosa che mi ha detto in un'intervista che gli ho fatto nell'agosto del 2020. Durante una lunga chiacchierata si è toccato anche questo tema e lui è stato chiarissimo quando ha detto che l'Unione Europea non ha bisogno di Stati che non vogliono accogliere gli immigrati, che non rispettano i valori fondanti dell'Ue rispetto al diverso. Si è sempre battuto per un'Europa accogliente. E' vero che Pahor ha usato il suo nome e la sua fama per ricordare soprattutto i diritti della comunità slovena in Italia, però lui ha sempre ripetuto che bisogna rimanere fedeli alla propria comunità, alla propria lingua e al proprio popolo senza però mai dimenticarsi del vicino di casa e quindi senza mai cercare di sovrapporsi all'altro: fedeli sì, ma rispettando gli altri. 

Funerali di Boris Pahor al cimitero di Sant'Anna (foto dal sito di Primorski dnevnik)
Funerali di Boris Pahor al cimitero di Sant'Anna (foto dal sito di Primorski dnevnik)

Come ha reagito Pahor davanti alla guerra in Ucraina? Ha commentato in qualche modo?

Posso solo rispondere immaginando la sua reazione. Sicuramente lui era contro ogni aggressione ad un Paese sovrano e non credo potesse capire le ragioni per cui la Russia ha invaso l'Ucraina. Però da uomo libero e spirito critico qual'era, sicuramente non gli avrebbero fatto piacere decisioni prese in Ucraina come vietare la lingua russa, gli autori e i musicisti russi. Ecco, Pahor era sempre sostenitore dei diritti delle minoranze e delle comunità linguistiche che possono esserci in un Paese e dobbiamo dire che dopo l'inizio della guerra anche in Italia abbiamo potuto notare dell'avversione verso la lingua russa e gli autori russi. Sicuramente questo non gli sarebbe piaciuto. Ripeteva spesso che un popolo non può essere ritenuto responsabile delle scelte fatte dai suoi capi, quindi era sempre un oppositore molto fiero contro il fascismo, il nazismo e anche contro il comunismo, ma nella sua vita non ha mai parlato male del popolo italiano o tedesco.  

Boris Pahor scrittore è stato valorizzato tardi rispetto alla sua produzione letteraria. Anche le traduzioni dei suoi libri in italiano, e quindi le pubblicazioni, si sono fatte attendere. Perché?

Credo che Boris Pahor fosse uno scrittore scomodo e negli anni 60-70 quando lui pubblicava in sloveno i suoi romanzi, Trieste non era la città di oggi, era una città in cui un cittadino italiano di lingua slovena aveva difficoltà ad avere successo. Non bisogna dimenticare che negli anni 70-80 c'era un'opposizione molto forte verso le richieste della comunità slovena. Uno degli slogan più diffusi dei partiti di destra nelle campagne elettorali era: "No al bilinguismo". Oggi sembra un po' strano perché penso che ormai tutti ci rendiamo conto di quanto sia importante conoscere più lingue, ma in quel periodo a Trieste parlare lo sloveno era ancora un problema. Molti di noi da  bambini ci siamo sentiti dire per strada sciavi, schiavi, ed era un'offesa perché parlavamo un'altra lingua, oppure ci dicevano "non parlare in quella lingua". La città era molto chiusa, poi piano piano, Pahor ha avuto successo in altri Paesi soprattutto in Francia e in Germania e quindi è stato scoperto anche dall'Italia. Negli ultimi 15-20 anni ha avuto un successo molto grande sia per le sue opere, sia anche per l'uomo, per il personaggio che a cent'anni ancora girava da solo per l'Italia a raccontare agli studenti quello che aveva vissuto.

Quale rapporto aveva Pahor con le fede?

Lui si definiva in qualche modo un panteista, credeva nella sacralità della vita, del corpo umano, in una natura divina, però diceva che aveva difficoltà a credere in Dio perché erano state troppe le sofferenza e troppe le ingiustizie che aveva visto nei campi di concentramento. 

A suo parere, qual è il messaggio principale che Pahor lascia a tutti noi?

Sicuramente l'importanza del rispetto per l'essere umano e per il corpo umano. Continuava molto spesso a ripetere che bisogna rispettare il corpo, il corpo delle donne, che mostrare una bella donna per far pubblicità ad una macchina non era rispetto. Diceva che anche nell'amore, nei rapporti sentimentali, bisognava avere sempre un grande rispetto per l'altro. Un altro messaggio è questa fedeltà al proprio popolo e alla propria lingua, però ricordandoci sempre che non siamo soli al mondo, che ci sono altri popoli che hanno i nostri stessi diritti, quindi bisogna imparare a vivere insieme. E poi l'importanza della memoria storica, di non dimenticare i campi di concentramento.  Durante le presentazioni dei suoi libri, spesso alla fine diceva di dedicare un applauso non a lui ma a tutti quelli che "non sono tornati".

Lei ha incontrato più volte Boris Pahor. Ha un ricordo personale da regalarci?

I ricordi sono tanti perché ho avuto veramente la fortuna di poter parlare con lui molto spesso anche a casa sua a Barcola. Quando lui ha compiuto 99 anni era ancora molto arzillo, abitava ancora da solo senza nessun aiuto; gli avevano organizzato una piccola festicciola e io non sapendo cosa regalare a una persona di 99 anni che conduceva una vita molto sana e quindi una bottiglia di vino non veniva presa in considerazione, gli avevo portato una pianta. Poi lui per anni, quanto ci sentivamo per interviste o anche quando gli facevo visita, ogni volta mi diceva sempre: "sa, la sua pianta cresce molto bene... ". Mi era sembrato quasi meravigliato e molto grato per questo piccolo regalo, come se non fosse abituato a riceverne. E questa è una cosa che mi piace ricordare.

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

07 giugno 2022, 13:06