50 anni fa l'inizio del Watergate: la cattiva politica e la lezione del giornalismo
Amedeo Lomonaco – Città del Vaticano
“Ho tradito i miei amici e il mio Paese”. È il mese di agosto del 1977 e Richard Nixon, tre anni dopo le dimissioni dalla presidente degli Stati Uniti, ammette pubblicamente, in una intervista rilasciata al giornalista britannico David Paradine Frost, le proprie responsabilità nel cosiddetto “Watergate”.
Questo scandalo che prende il nome dal complesso residenziale e per uffici di Washington, dove aveva la propria sede il comitato per la campagna elettorale del partito democratico. In questi uffici, nel 1972, alcuni funzionari del partito repubblicano avevano cercato documenti segreti e piazzato microfoni.
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La notte del 17 giugno vengono arrestate 5 persone, poi incriminate per spionaggio ai danni del comitato elettorale del candidato democratico, il politico George Stanley McGovern. Il processo porta alla condanna anche di altre due persone legate al comitato per la rielezione di Richard Nixon che nel 1968, per la prima volta, era stato eletto presidente degli Stati Uniti.
Una apposita Commissione, ricorda l’enciclopedia italiana "La Treccani", mette in luce le responsabilità nella vicenda dei più stretti collaboratori del capo della Casa Bianca. Uno dei suoi consulenti, l’avvocato John Dean, cerca di arginare la fuga di notizie e per proteggere il presidente dal coinvolgimento nella vicenda corrompe con somme di denaro alcune persone. Il presidente Nixon, che si dimette l’8 agosto del 1974, ammetterà in seguito di essere stato a conoscenza della vicenda e dei tentativi portati avanti per evitare la procedura di impeachment. Per far emergere lo scandalo del Watergate, legato al contesto della crisi politico-sociale negli Stati Uniti a seguito soprattutto delle vicende della guerra del Vietnam, è stata decisiva l’inchiesta condotta da due reporter, Bob Woodward e Carl Bernstein, del quotidiano “Washington Post”. La vicenda Watergate, che ha ispirato tra l’altro il film “Tutti gli uomini del presidente”, è divenuta in tutto il mondo sinonimo di corruzione politica. E ha messo anche in luce l’importanza del giornalismo di inchiesta.
La corruzione è “pane sporco”
Durante il Pontificato, Papa Francesco si è soffermato più volte sulla piaga della corruzione. Nella meditazione mattutina, l’8 novembre del 2013, il Pontefice sottolinea che gli amministratori corrotti “devoti della dea tangente” commettono un “peccato grave contro la dignità” e danno da mangiare “pane sporco” ai propri figli. Incontrando il 27 novembre del 2015 i giovani a Nairobi durante il viaggio apostolico in Kenya il Papa paragona poi la corruzione allo zucchero. “E’ come lo zucchero: è dolce, ci piace, è facile… e poi? Finiamo male! Facciamo una brutta fine! Con tanto zucchero facile, finiamo diabetici e anche il nostro Paese diventa diabetico!”. La corruzione, spiega inoltre il Papa rivolgendosi il 17 novembre del 2016 ai partecipanti alla Conferenza internazionale delle Associazioni di imprenditori cattolici, è “la piaga sociale peggiore”.
È la menzogna di cercare il profitto personale o del proprio gruppo sotto le parvenze di un servizio alla società. È la distruzione del tessuto sociale sotto le parvenze del compimento della legge. È la legge della giungla mascherata da apparente razionalità sociale. È l’inganno e lo sfruttamento dei più deboli o meno informati. È l’egoismo più grossolano, nascosto dietro a un’apparente generosità. La corruzione viene generata dall’adorazione del denaro e torna al corrotto, prigioniero di quella stessa adorazione. La corruzione è una frode alla democrazia.
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Il giornalismo è sano quando arriva alla verità
Papa Francesco, durante il Pontificato, si è più volte soffermato anche su temi legati al giornalismo. Amare la verità, vivere con professionalità interiorizzando il senso profondo del proprio lavoro e rispettare la dignità umana sono alcuni degli aspetti che scandiscono questa professione. Il Pontefice lo ricorda rivolgendosi il 22 settembre del 2016 al Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti. Amare la verità, in particolare, significa per Francesco “arrivare il più vicino possibile alla verità dei fatti e non dire o scrivere mai una cosa che si sa, in coscienza, non essere vera”.
Amare la verità vuol dire non solo affermare, ma vivere la verità, testimoniarla con il proprio lavoro. Vivere e lavorare, dunque, con coerenza rispetto alle parole che si utilizzano per un articolo di giornale o un servizio televisivo. La questione qui non è essere o non essere un credente. La questione qui è essere o non essere onesto con sé stesso e con gli altri. La relazione è il cuore di ogni comunicazione. Questo è tanto più vero per chi della comunicazione fa il proprio mestiere. E nessuna relazione può reggersi e durare nel tempo se poggia sulla disonestà. Mi rendo conto che nel giornalismo di oggi – un flusso ininterrotto di fatti ed eventi raccontati 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana – non è sempre facile arrivare alla verità, o perlomeno avvicinarsi ad essa. Nella vita non è tutto bianco o nero. Anche nel giornalismo, bisogna saper discernere tra le sfumature di grigio degli avvenimenti che si è chiamati a raccontare.
La buona informazione si lega ad una grande responsabilità. La società – sottolinea Francesco rivolgendosi il 16 dicembre del 2017 ai membri dell’Unione Stampa periodica italiana e della Federazione italiana settimanali cattolici ha bisogno che il diritto all’informazione venga scrupolosamente rispettato “Non bisogna cadere nei “peccati della comunicazione”: la disinformazione – cioè dire soltanto una parte –, la calunnia, che è sensazionalistica, o la diffamazione, cercando cose superate, vecchie, e portandole alla luce oggi: sono peccati gravissimi, che danneggiano il cuore del giornalista e danneggiano la gente”.
Giornalismo di inchesta, un impegno sempre più necessario
Quale è oggi il valore del giornalismo di inchiesta? Alessandro Guarasci ha rivolto questa cruciale domanda al redattore Nello Scavo, inviato speciale di Avvenire. Tante le sue inchieste dai fronti più caldi. Nel 2017 Nello Scavo è riuscito a introdursi in una prigione clandestina degli scafisti libici, documentando le pessime condizioni di vita dei migranti. Negli ultimi anni, è stato tra i giornalisti saliti sulle navi che pattugliano il Mediterraneo in soccorso degli immigrati.
Nello Scavo sottolinea che è sempre più necessario fare giornalismo d’inchiesta e per certi versi, grazie agli strumenti oggi disponibili, sarebbe perfino più semplice. Ma questi strumenti che sono alla portata di tutti vengono anche utilizzati per manipolare l’informazione e per ostacolare le inchieste giornalistiche o per screditarle. Le questioni legate al traffico di esseri umani, al petrolio e a drammatiche vicende nel Mediterraneo compongono una delle recenti inchieste che ha richiesto maggiore impegno e che in realtà non si è mai conclusa. Sono emerse connessioni tra ambienti pubblici, interessi privati e organizzazioni criminali. Per un giornalista, spiega infine Nello Scavo, è fondamentale realizzare inchieste sul campo essendo nei luoghi dove le cose accadono, come in questo momento in Ucraina dove bisogna grattare oltre la superficie della narrazione ufficiale sulla guerra.
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La puntata numero 104 di Doppio Click è stata realizzata da Andrea De Angelis, Alessandro Guarasci e Amedeo Lomonaco
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