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Una Chiesa bombardata nello Stato di Kayah, in Birmania (AFP) Una Chiesa bombardata nello Stato di Kayah, in Birmania (AFP)

Myanmar, i giovani messi alla prova dalla guerra

La testimonianza di uno dei pochi missionari stranieri ancora presenti nel Paese del sud-est asiatico. Racconta la vita quotidiana durante la guerra, quando il "male assoluto" spinge gli studenti ad abituarsi alle bombe e i giovani a chiedersi se continuare la loro formazione religiosa o arruolarsi nell'esercito, come hanno fatto i loro amici

Adélaïde Patrignani e Marie Duhamel - Città del Vaticano

In Myanmar si combatte una guerra civile che tutti sembrano aver dimenticato. In particolare negli Stati di Chin, Kayah, Chan e Sangaing, il Paese è piombato nel caos dopo il colpo di Stato militare. Nel febbraio 2021 la giunta ha rovesciato il governo civile di Aung San Suu Kyi e per combatterla, in nome della democrazia, gli attivisti anti-golpe sono scesi in piazza in tutto il Paese, alleandosi in alcune regioni con milizie etniche locali in conflitto con le autorità da decenni. Una ribellione che sta subendo pesanti perdite: dal colpo di Stato, più di 2.300 persone sono state uccise dalle forze di sicurezza e più di 15.000 arrestate, secondo una ONG locale.

L'alto prezzo pagato dalla Chiesa 

“Un'assurda violenza militare che non risparmia nessuno”. È il commento di un missionario francese raggiunto da Radio Vaticana-Vatican News nelle zone in cui si combatte. Il giovane ha chiesto l’anonimato per motivi di sicurezza. “Noi cristiani rappresentiamo l'1% della popolazione, praticamente siamo niente. Tuttavia nelle zone di conflitto ce ne sono ancora molti e la Chiesa paga un prezzo molto, molto alto. Non fanno sconti ai cristiani, ma d'altra parte hanno attaccato anche una scuola birmana in un tempio buddista, con un elicottero. Si considerano ultra buddisti, paladini della religione ma, allo stesso tempo, sono in grado di sparare contro una scuola situata nel terreno di un monastero. Questo è un aspetto spaventoso. Vogliono arricchirsi e sottomettere tutti incutendo paura, si ha come l'impressione di essere governati da una barca impazzita, in preda alle onde. Il capo della giunta si è recato in visita da Vladimir Putin a Vladivostok e hanno parlato della creazione di una centrale nucleare per l'energia elettrica e di auto elettriche. Tuttavia riusciamo ad avere l’elettricità per 24 ore di fila, nemmeno nelle grandi città. Si ha l'impressione che questi uomini vivano in un mondo parallelo. Possono fare tutto ciò che fanno perché nessuno li ferma".

Ascolta l'intervista in lingua originale con il missionario

Di fronte a questa situazione, la popolazione si sta organizzando per resistere o per sopravvivere?

Esistono vere e proprie organizzazioni attorno alla Forza di Difesa Popolare nota come PDF, People’s Defense Force: si tratta di gruppi armati che controllano, secondo alcune associazioni, il 52% del territorio, soprattutto nelle zone rurali. Dopodiché, la popolazione locale fa quello che può. Stanno soffrendo molto perché tutti i prezzi sono aumentati a dismisura. Ci sono code per il riso, per tutto. Tutto è estremamente costoso. Qui gli alimenti di base sono il riso e l'olio, e abbiamo paura, perché i contadini non possono coltivare. Una delle zone di maggior produzione di riso è a ferro e fuoco”.

Come viene influenzata la vostra vita quotidiana dalla guerra?

"Stiamo attenti quando viaggiamo, perché potrebbero esserci controlli di polizia. La sera, naturalmente, non c'è nulla. Sono molto sporadici, non si possono prevedere, quindi la gente continua a fare ciò che deve. Forse la cosa peggiore è che ci si abitua. Ad esempio, anche se la situazione sembra essersi calmata, da lontano si sentono bombe e colpi di artiglieria ogni giorno. È strano quando l'intero edificio si muove, ma ormai è la nostra quotidianità. C’è un orfanotrofio vicino a noi. Ho parlato con le suore, mi hanno spiegato che i bambini hanno paura appena sentono gli spari, invece gli adolescenti non ci fanno caso, sono ormai parte della loro vita. Quindi, in futuro, avremo una generazione che si porterà dietro questi traumi. Alcuni genitori si rifiutano di mandare i propri figli alla scuola pubblica. Per questo motivo la nostra piccola scuola cattolica è piena di iscritti. Quando un bambino va a scuola, trova l'esercito davanti all'istituto. Si entra a scuola e al portone di ingresso c’è un ragazzo con il kalashnikov. Non riesco a capire fino in fondo che effetto possa avere sulla psiche di un bambino, ma non è una situazione normale.

Come si pone la Chiesa in questa situazione di conflitto?

I vescovi sono molto prudenti. Possiamo comprendere la loro posizione, anche se a volte vorremmo che protestassero con più forza. Invitano al dialogo piuttosto che alla protesta, e ci ricordano che le chiese e i luoghi di rifugio sono luoghi sacri, che non possono essere obbiettivi di attacchi. Ma è impossibile stabilire un dialogo con l'esercito. Il lavoro della Chiesa si svolge prevalentemente a livello locale. Ad esempio, nella diocesi di Mandalay, e in altre diocesi, ci sono molti campi profughi gestiti dalla Chiesa. L'aiuto della Chiesa è molto concreto, anche in termini di preghiera. Ogni giorno preghiamo per la pace. La Conferenza episcopale ha scritto una preghiera. Si prega ogni giorno, in tutte le parrocchie, ovunque sia possibile pregare. Ma c’è anche molto combattimento interiore. Molti giovani  in età per combattere, si chiedono: “I nostri amici stanno combattendo, non dovremmo unirci a loro? Cosa dovremmo fare? Continuare la nostra formazione per diventare sacerdoti o andare a combattere?”. È una situazione molto complicata per le giovani generazioni. L'arcivescovo di Mandalay ha espresso la sua protesta in un videomessaggio. Forse è per questo motivo che ha ricevuto la visita dell'esercito? Non saprei.

Fino a che punto i cattolici sono disposti a spingersi per manifestare la loro opposizione?

All'inizio, quando lo scorso anno ci sono state le grandi manifestazioni di febbraio e marzo, c'erano molti sacerdoti, suore e vescovi che, senza manifestare, stavano davanti alle porte della cattedrale e delle chiese, alcuni con cartelli in difesa delle libere elezioni. È diventata famosa l’immagine della suora che si è messa davanti ai militari. Perché, in fondo, il popolo e persino i militari rispettano il sentimento religioso. Ma più la violenza è aumentata, più l'attività della Chiesa ha dovuto assumere toni discreti, anche per poter proseguire nell’opera di accoglienza dei rifugiati. Quindi, si è dovuto cercare un equilibrio tra le due cose. Ma non si tratta di un compromesso e non è corretto dire che la Chiesa sta cercando di stare dalla parte dei più forti. Non conosco un sacerdote che non sia favorevole al ritorno della democrazia e della pace. Per i nostri giovani inoltre è molto complicato andare a studiare all'estero, ottenere il passaporto. Se un giovane deve recarsi in una comunità religiosa nelle Filippine, deve pagare per ottenere i documenti. Ai tempi di Aung San Suu Kyi c'era corruzione, ma ora è palese. In pratica tutti sanno quando devono pagare per ottenere ciò che gli occorre.

Lei ha parlato di una barca impazzita, in preda alle onde. Quali segni di speranza vedete?

La cosa bella, soprattutto a livello di Chiesa, è che i seminari sono aperti, anche se non so per quanto tempo lo resteranno. Le case di formazione continuano a funzionare, ci sono ordinazioni, professioni religiose e soprattutto c’è l'impegno dei cristiani. Questo è molto edificante e ci permette di sperare nel futuro. Altrimenti saremmo un po' come Giobbe sul letamaio, senza la possibilità di vedere il futuro. Per fortuna, e credo che questa sia la forza per molti qui nelle zone di conflitto, la fede dà la possibilità di guardare oltre la croce, soprattutto per i giovani. Altrimenti diventa complicato capire il senso di ciò che accade, del resto è normale non comprenderlo perché assistiamo alla manifestazione del male assoluto.

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06 ottobre 2022, 12:42