Suicidi in carcere, una mostra per non dimenticare

“Disagio dentro” è la mostra fotografica che accende i riflettori sul dramma dei suicidi nelle carceri italiane. Nata dagli scatti realizzati negli istituti di pena milanesi dagli stessi detenuti e dagli agenti della Polizia Penitenziaria, l’esposizione, che chiuderà a fine novembre, è stata allestita in un luogo simbolo: il Palazzo di Giustizia di Milano

Roberta Barbi – Città del Vaticano

Una foto per ogni detenuto che si è tolto la vita in questo 2022, già ribattezzato l’anno nero delle carceri italiane: in tutto sono 74 – al momento dell’inaugurazione della mostra il 7 novembre scorso, ma purtroppo il dato è già salito – e raccontano la vita negli istituti di pena di Milano: la casa circondariale di San Vittore, la casa di reclusione di Opera e il minorile Beccaria. La mostra “Disagio dentro” è una costola di “Per me si va tra la perduta gente”, esposizione fotografica realizzata dalla onlus Ri-scatti e allestita al Pac, il Padiglione di arte contemporanea di Milano, nel mese di ottobre. “Come molte delle storie più belle anche questa nasce per caso – racconta a Radio Vaticana-Vatican News Amedeo Francesco Novelli, vicepresidente di Ri-scatti – al Pac abbiamo avuto un pubblico enorme, inaspettato, e tra questo c’era anche un avvocato della Camera penale di Milano che si stava occupando di un progetto di sensibilizzazione sul tema dei suicidi in carcere e al quale è venuta l’idea che a noi è sembrato molto importante realizzare”.

Ascolta l'intervista con Amedeo Francesco Novelli:

Il Palazzo di Giustizia, una location dal valore simbolico

Da otto anni Ri-scatti si occupa di informare e rendere cosciente l’opinione pubblica su un’emergenza sociale, raccontata dalle persone che quella realtà la vivono ogni giorno sulla propria pelle. Quest’anno la scelta è ricaduta sul mondo, troppo spesso invisibile, del carcere: hanno dotato di macchina fotografica detenuti e agenti della polizia penitenziaria e ne è scaturito un lungo racconto di 50mila foto, da cui ne sono state selezionate 800 per la mostra “Per me si va tra la perduta gente”. “Il fatto di raccontare il carcere attraverso gli occhi di detenuti e agenti di polizia, che poi sono ‘diversamente detenuti’ perché molti di loro vivono all’interno delle caserme adiacenti al carcere, appena fuori l’area destinata alla detenzione - spiega ancora Novelli - è  stato funzionale anche a questa nuova mostra per non dimenticare il dramma dei suicidi.  È un fenomeno, infatti, che riguarda non solo le persone in esecuzione penale, ma anche gli agenti, se non sbaglio sono già quattro quest’anno a essersi tolti la vita”.

Il dramma delle donne, mogli e madri detenute
Il dramma delle donne, mogli e madri detenute

Ogni detenuto ha la sua storia

Ristretti e agenti che condividono tempi e spazi, dunque, spesso tragicamente uniti anche in un gesto estremo, ultimo e irreversibile come il suicidio. Molte le problematiche alla base: dall’inadeguatezza delle strutture, allo stress di un lavoro usurante, impossibile, se non per gli esperti, elaborare un profilo di rischio, perché ognuno ha la sua storia. E la storia di alcuni dei suicidi di quest’anno viene raccontata con poche parole a corredo delle foto di “Disagio dentro”: “La spinta finale a fare questa mostra è venuta proprio dal suicidio, nei giorni in cui eravamo al Pac, di un detenuto di San Vittore che non aveva partecipato al nostro progetto, ma era ritratto in alcune foto, una storia quindi a noi molto vicina”, testimonia il vicepresidente. Si tratta di Giacomo, 21 anni, la vittima più giovane dell’anno fino ad ora. Aveva un disturbo della personalità e in carcere non doveva proprio starci perché era destinato a un istituto di cura, invece è morto in una cella inalando il gas di un fornelletto di quelli che si usano per cucinare. Poi, tra le altre, c’è la storia di Roberto che a Palermo scontava una condanna per rapina ma, soprattutto, aspettava di essere trasferito in una comunità perché soffriva di un disturbo psichiatrico. Qualche chilometro più in là, a Caltagirone, era detenuto Simone, che aveva rubato e immediatamente restituito un portafogli e un telefonino, anche lui era in lista d’attesa per una struttura che potesse curare la sua psicosi ed era sottoposto a regime di massima sorveglianza in cella. E ancora David, tossicodipendente rinchiuso nel carcere di Sondrio che non ce la fa e si uccide a poche ore dall’interrogatorio di garanzia. Stessa dinamica di Dahou, che dal Marocco era finito nella casa circondariale di Sollicciano, a Firenze, dopo un primo arresto a Prato, sempre per reati legati alla droga. E non dimentichiamo le donne, mogli e madri, per cui il carcere è, se possibile, ancora più duro: per tutte ricordiamo Donatella, che a 27 anni non regge la lontananza del figlio e si uccide nella sua cella del carcere di Montorio-Verona.  

Ripartire dal carcere

Sono storie che fanno male, sono pugni nello stomaco che colpiscono l’intera collettività, ma allora da dove si deve ripartire? “Dal carcere – è la risposta di Novelli – ci vuole un’azione d’insieme che comprenda la volontà politica e che coinvolga la società civile nel fare pressione”. Ben vengano, allora, le iniziative di socializzazione, che non mirano soltanto a gettare un ponte tra l’interno e l’esterno, ma fanno capire che il carcere non è un mondo lontano, ai margini della nostra società, ma di essa fa parte, è quel “Perché loro e non io?” che si domanda Papa Francesco ogni volta che entra in un istituto di pena o accarezza un detenuto. “Tra l’altro non dimentichiamo che il carcere è la cartina tornasole del nostro sistema giudiziario – conclude il vicepresidente di Ri-scatti – non è una punizione e basta, ma deve comprendere un reintegro della persona nella collettività, perciò bisogna occuparsi per prima cosa delle recidiva”. E a dirlo, pensiamo un po’, è la Costituzione italiana, all’articolo 27. Ma anche questo, troppo spesso, si dimentica.

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21 novembre 2022, 11:00