Sudan, l’Onu chiede la firma di un accordo per ripristinare il potere civile
Francesca d’Amato - Città del Vaticano
“Considerando quella che è la storia del Sudan, questo è un accordo di massima, che va preso con il beneficio del dubbio”. Lo afferma padre Giulio Albanese, missionario comboniano e giornalista esperto di Africa, in merito alla richiesta da parte dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, al Sudan, a ristabilire un governo civile per uscire dalla pesante crisi politica ed economica che sta attraversando il Paese attraverso la firma di un accordo quadro tra governo militare e civile. La speranza è di un Sudan democratico.
L’Onu chiede il ripristino del potere civile
A poco più di un anno dal colpo di Stato del generale Abdel fattah al-Burhan avvenuto il 25 Ottobre 2021 che ha deposto il primo ministro Abdalla Hamdok, è stato istituito un Consiglio Sovrano composto da civili e militari, che avrebbe dovuto governare il Sudan con l’obiettivo di realizzare una transizione democratica fino all’anno 2022. Mercoledì si è svolto a Khartoum capitale del Sudan, l’incontro tra i vertici dell’ONU e il governo militare del Paese, per la firma di un accordo quadro con l’esercito, con il fine di ristabilire il potere civile. La coalizione Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc) raggrupperà tutti i movimenti democratici della società civile. Il presidente della Corrente democratica del Movimento di liberazione del popolo sudanese-Nord (Splm-N) e membro del consiglio centrale delle Ffc, Yasir Arman, ha dichiarato al quotidiano Sudan Tribune che “l’accordo sarà firmato entro dieci giorni”. Anche al-Burhan si è mostrato propositivo nella firma dell’accordo ma ha anche dichiarato che i militari non avrebbero accettato nessuna direttiva da parte di un governo civile, e che all’esercito sarebbe stata comunque lasciata ogni decisione a fronte di qualsiasi cambiamento. A garantire che il nuovo governo di transizione sarà completamente civile, è stata Taha Osman membro di spicco delle Ffc. Yasir Arman membro del consiglio centrale per le Forze della libertà e il cambiamento, ha assicurato che il consiglio di sicurezza e difesa sarà presieduto dal primo ministro. Il quasi totale controllo dell’economia e delle risorse e delle forze di sicurezza, è ad oggi però in mano ai militari e questo potrebbe rischiare di minare l’accordo.
Il ruolo della giunta militare
Arman ha dichiarato che l’obiettivo dell'intesa sarà passare il potere nelle mani dei civili. Il leader ha anche messo in luce i temi da affrontare una volta che la firma dell’accordo sarà avvenuta. Secondo padre Giulio Albanese, ci saranno vari temi da affrontare tra cui quello della giustizia, ma la questione principale sarà quella della relazione tra governo e forze di sicurezza, ovvero i militari e l’esercito. “I militari non sembrano assolutamente intenzionati a farsi riformare da i civili e poi c’è tutta la questione delle materie prime che attualmente stanno gestendo i militari", sottolinea l'esperto. “Il Sudan soffre di molti problemi di tipo economico: il regime militare di Bashir, che è stato il presidente dall'89 al 2019, ha portato l’economia del Sudan in gravi difficoltà. La giunta mista militare e civile del 2021 ha cercato poi di traghettare il Paese, ma con difficoltà perché il tema economico è sempre stato scottante.”
“I militari - aggiunge ancora Albanese - non si vogliono lasciare da parte, anche perché qualora il potere rimanesse ai civili, rimarrebbero senza lavoro. Al-Burhan, aveva già annunciato che ci sarebbe stata un’intesa con i civili, ma aveva anche precisato che i militari non avrebbero accettato di essere riformati da un governo civile. Quindi il problema di fondo è che questo governo civile di transizione che potrebbe esserci entro dieci giorni, rischia di rimanere un governo fantoccio". Il comboniano invita a guardare all’esperienza del passato che, dice, "ci insegna che i militari non gettano la spugna cosi facilmente, per un motivo: perché con le armi hanno il controllo del Paese e possono intervenire quando vogliono, e soprattutto perchè hanno anche il controllo del business”.
Opposizioni e manifestazioni
Negli ultimi giorni, il Sudan è stato scosso da molteplici rivolte e manifestazioni, e il clima che vige ora è quello di una tensione e crisi profonda. Una crisi che ha portato i sudanesi a manifestare e a scendere in piazza, già dal 2019, quando i civili avevano deposto il presidente Omar al-Bashir. Da allora in Sudan quasi ogni settimana i cittadini continuano a manifestare, nonostante una delle più pesanti repressioni che ha provocato la morte di quasi 120 persone, avvenuta nel giugno 2019. “I civili vogliono che le istituzioni politiche siano decise dal popolo e stanno implorando un governo formato da loro. Le riforme da fare sono tantissime e ci si aspetta che il governo possa varare una serie di riforme che possano segnare il cambiamento”, afferma Padre Albanese “C’è il tema della giustizia, della gestione delle materie prime, delle forze armate, che sono un qualcosa a sé stante e prescinde da quella che è la concezione dell’esecutivo in mano ai civili.” I civili vogliono il ritorno alla democrazia. “Il fatto che ci siano dei colloqui tra le parti, è già di per sé un fatto positivo. Il Sudan è inserito in un mondo in cui stanno avvenendo drammatici cambiamenti soprattutto dal punto di vista politico".
Quale futuro si prospetta per il Sudan
Il Sudan rimane inoltre il terzo Stato più debole al mondo e attualmente tra i meno democratici. A pesare negativamente sullo sviluppo, sono un sistema politico complesso formato da partiti rappresentativi di piccole élites, e una conflittualità diffusa a vari livelli. La convivenza tra culture diverse è infatti la vera sfida sociale e politica del Paese, costituito al 70% da arabi e per il restante 30% da animisti e cristiani. La spinta all’occidentalizzazione è presente sin dagli anni ’90, con l’introduzione di un sistema scolastico basato sul modello occidentale e sull’utilizzo della lingua inglese. “Da quando questo Paese è diventato indipendente, sono sempre stati i filoarabi a dettare le regole del gioco a Khartun. In un paese di questo tipo, riuscire ad innescare dei meccanismi di cambiamento non sarà facile", afferma padre Giulio Albanese. “Non solo bisognerà vedere se la società civile riuscirà ad imporsi, ma anche quale sarà l’atteggiamento dell’Europa e degli Stati Uniti".
Un evidente ostacolo verso il raggiungimento di un governo democratico è rappresentato dai sempre più crescenti conflitti europei, che rischiano di emarginare una terra già in piena crisi umanitaria. “Quello che purtroppo sta avvenendo con la crisi in Ucraina è evidente che sta avendo delle conseguenze negative sul Sudan. Perché chiaramente in questo momento è difficile che la comunità internazionale riesca ad avere un pensiero unitario rispetto al futuro democratico di questo Paese", sottolinea Albanese. Stabilire la democrazia in un paese già di per sè frammentato per la varietà e complessità etnica, linguistica e religiosa non è semplice, aggiunge: “Purtroppo è un Paese in cui ci sono molte componenti, quella islamista è molto forte ma è anche legata alle oligarchie locali che hanno a che fare con la politica, e difficilmente getteranno la spugna. Siamo in cammino verso la democrazia, ma personalmente ritengo che il cammino sia ancora lungo. Vorrei però sbagliarmi...”.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui