Tanzania, lo spostamento forzato dei Maasai e il dibattito sulla conservazione ambientale
Edoardo Giribaldi - Città del Vaticano
Da più di settant'anni la popolazione dei Maasai occupa la riserva naturale del Ngorongoro, situata nel nord-est della Tanzania in prossimità del confine con il Kenya e Sito del Patrimonio Mondiale dell'Unesco. L'area è famosa per la ricca varietà di flora e fauna selvatica, comprendente, tra gli altri, leoni, elefanti, zebre e ghepardi. Negli ultimi mesi il governo ha lanciato una "campagna di ricollocazione" delle tribù Maasai per fare fronte all'ingente aumento demografico che ha visto la popolazione salire in poco più di sessant'anni da 8.000 ad oltre 70.000 unità. La giornalista di Nigrizia, la rivista dei missionari comboniani dedicata al continente africano, Bruna Sironi spiega come non sia la prima volta che i Maasai vengono costretti a lasciare le loro terre. "Era già avvenuto all'inizio degli anni '50, quando è nato il parco nazionale del Serengeti".
Le intenzioni del governo
Secondo quanto riportato da Sironi, che gode di un punto di vista privilegiato sulla questione in quanto attualmente residente in Kenya, il governo intende ripulire 1,500 chilometri quadrati dei territori legalmente assegnati ai Maasai per creare un corridoio tra il parco del Serengeti e il cratere Ngorongoro. "Lo scopo è quello di darlo poi in uso alla Otterlo Business Company, una società con sede negli Emirati Arabi Uniti specializzata nell'organizzazione di battute di caccia per la famiglia reale e i loro ospiti".
Gli interessi economici
Il governo giustifica questi spostamenti chiamando in causa il forte incremento demografico ma, sostiene Sironi, "c'è un chiaro interesse economico in gioco: i 15 villaggi comprendenti la totalità della popolazione Maasai non possono mettere a rischio la biodiversità di un territorio corrispondente a 1,500 chilometri quadrati". Lo scorso luglio lo stesso vice commissario del territorio protetto del Ngorongoro ha dichiarato come il governo preveda l'arrivo di circa 1,2 milioni di turisti all'anno con un ricavo pari a 112 milioni di dollari. "In Tanzania il turismo è un'attività economica molto importante - rimarca la giornalista - pari al 10,7% del Pil nel 2019, secondo i dati forniti dall'Organizzazione mondiale del turismo".
Le repressioni
Per chi non si adegua a questa politica di sfratto, i provvedimenti sono spesso violenti e spietati. Nello scorso giugno sono state diffuse immagini definite da Sironi "raccapriccianti, in cui i Maasai erano trattati come bestie selvatiche". La repressione, però, è avvenuta anche in maniera più subdola, come segnalato dalla stessa giornalista e da diverse organizzazioni che si occupano dei diritti delle popolazioni native. Sono state tagliate infatti diverse risorse per le comunità, tra cui dei fondi destinati a contrastare la pandemia nella scuola della zona.
I modelli di conservazione ambientale
Questi episodi hanno portato all'attenzione pubblica la questione del modello dominante di salvaguardia ambientale in Africa, definito di "conservazione fortezza", e che si rifà alle occupazioni coloniali del passato. "Si tratta di una modalità che considera i nativi un pericolo per il mantenimento della biodiversità - spiega Sironi - ed è parte di un concetto per cui le conoscenze per tutelare il patrimonio naturale spettano esclusivamente ai Paesi sviluppati". Il ruolo che un tempo era giocato dai colonizzatori ora è in mano alle organizzazioni internazionali, chiamate a fare dei ragionamenti su "dati fattuali che dimostrano come non sia vero che la difesa della biodiversità necessita dell'espulsione della popolazione indigena".
La creazione di nuove aree protette
A questo proposito, la giornalista ricorda il Summit della terra tenutosi a Rio de Janeiro nel 1992, in cui 196 paesi firmarono una convenzione per la protezione della biodiversità biologica. L'organo dell'ONU preposto alla creazione di programmi di sviluppo (UNDP) sta attualmente mettendo a punto un piano che prevede l'intenzione di fare diventare aree protette il 30% dei territori e dei mari del pianeta. "Se approvata, verrebbero coinvolte almeno 300 milioni di persone".
La salvaguardia delle popolazioni indigene
La proposta, sostiene Sironi, apre il dibattito tra i conservazionisti più puri, "i quali si rifanno al modello ormai superato che sostiene come la misura sia necessaria per salvaguardare la biodiversità", e coloro che invece sono dalla parte delle popolazioni locali. "Coinvolgerle direttamente in attività compatibili, ad esempio come guide turistiche, potrebbe contribuire alla difesa stessa dei territori. Io, da residente in Kenya, la penso così". Il provvedimento porterebbe anche a numerose ribellioni, incidenti, incremento del bracconaggio ed incendi delle foreste per avere maggiori superfici da dedicare all'agricoltura. Diventa quindi necessario definire nuovi parametri di conservazione che comprendano la popolazione locale, “Sarebbe inspiegabile un programma per cui la biodiversità umana venga protetta meno di quella comprendente flora e fauna, a beneficio dei turisti.”
Papa Francesco e la difesa di popoli e biodiversità
Nel corso del suo Pontificato, Papa Francesco ha sottolineato l'importanza del connubio tra salvaguardia degli ambienti più fragili e le popolazioni in essi residenti. Lo scorso 1 settembre in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, Francesco aveva invitato le nazioni ad accordarsi su principi chiave che lottassero "contro la perdita di biodiversità" mettendo al centro "le persone in situazioni di vulnerabilità, comprese quelle più colpite dalla perdita di biodiversità, come le popolazioni indigene, gli anziani e i giovani."
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