In Myanmar attesa e speranza per possibili passi verso la riconciliazione
Fausta Speranza – Città del Vaticano
È atteso per venerdì 30 dicembre il verdetto nel processo all'ex leader Aung San Suu Kyi per gli ultimi cinque capi di imputazione contro di lei sollevati dalla giunta militare arrivata al potere dopo il colpo di Stato nel febbraio 2021. Il premio Nobel per la Pace è stata accusata di 14 incriminazioni, tra cui una per corruzione, e condannata a 26 anni di carcere. Il 21 dicembre scorso il Consiglio di sicurezza Onu ha esortato la giunta a rilasciarla. Il Myanmar è tra i Paesi citati dal Papa nel corso della benedizione Urbi et Orbi da Piazza San Pietro. In particolare, Francesco ha lanciato un appello per la riconciliazione nel Myanmar.
Della pressione internazionale abbiamo parlato con Albertina Soliani, già presidente del Gruppo parlamentari amici della Birmania:
Soliani spiega che si è trattato della prima Risoluzione delle Nazioni Unite sulla situazione in Myanmar dal colpo di Stato avvenuto il 1 febbraio 2021, ma in realtà è anche la prima risoluzione in 74 anni. L’unica altra risoluzione riguardante il Paese è stata adottata dal Consiglio di sicurezza nel 1948: quella che approvava l’adesione dell’allora Birmania all’organismo mondiale.
L’appello dell’Onu
La nuova risoluzione, ricorda Soliani, chiede la fine della violenza e invita i governanti militari del Paese a rilasciare tutti i prigionieri politici, inclusa la leader democraticamente eletta Aung San Suu Kyi. L’esercito del Myanmar ha preso il potere nel febbraio 2021, arrestando lei e altri funzionari, e uccidendo diverse migliaia di persone e incarcerandone più di 16.000 persone durante le proteste. Il Consiglio di sicurezza, che è composto da 15 membri, è stato diviso per decenni. La risoluzione del 21 dicembre, sottolinea, è stata adottata con l’astensione di Cina e Russia, che nel 2008 si erano espressi contro un altro precedente testo, e il favore dei restanti 12 membri del Consiglio di sicurezza. Anche al momento della crisi dei Rohingya - dall’estate 2017 almeno 700.000 persone in fuga dallo Stato di Rakhine in Myanmar verso il vicino Bangladesh - non c’è stato un voto del Consiglio di sicurezza. Durante tale crisi era de facto al governo Aung San Suu Kyi.
Stati Uniti e Ue
Dopo le sanzioni contro la giunta al potere decise subito da Washington in seguito al colpo di Stato, il 23 dicembre scorso il presidente Biden ha firmato il Burma act, la legge votata dal Congresso con cui gli Stati Uniti prendono posizione contro l'esercito del Myanmar ritenendolo responsabile delle violazioni dei diritti umani e ribadiscono di sostenere la lotta per la democrazia.
Anche l’Unione europea ha reagito al colpo di Stato imponendo in quattro cicli sanzioni e lanciando appelli. Le misure restrittive si sono aggiunte alla sospensione dell'assistenza finanziaria dell'UE destinata direttamente al governo e al congelamento di tutti gli aiuti dell'UE che potessero legittimare la giunta.
Dai vertici dell'Unione europea si è levata più volte la voce preoccupata per la continua escalation della violenza in Myanmar e per l'evoluzione verso un conflitto prolungato con implicazioni regionali. E’ stata più volte ribadita in via prioritaria la richiesta di cessare immediatamente tutte le ostilità e di porre fine all'uso sproporzionato della forza e allo stato di emergenza. Bruxelles ha continuato a fornire assistenza umanitaria alla popolazione, conformemente ai principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza, ribadendo la richiesta che il diritto umanitario internazionale sia rispettato in toto e immediatamente.
La pressione regionale
Secondo Soliani, qualcosa sta maturando anche per quanto riguarda l’Asean, finora sostanzialmente diviso e poco incisivo. Al Summit dei Paesi del sud-est asiatico (Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia, Vietnam) che si è svolto a novembre scorso sotto la presidenza cambogiana è emersa una posizione più decisa nell’indicare come “una priorità assoluta” la risoluzione del conflitto in Myanmar. Il Paese, ricorda Soliani, è in preda all’instabilità politica ed economica, a causa dei protratti scontri tra milizie nazionali e gruppi ribelli armati. Finora dall’Asean erano giunte molte condanne verbali delle violenze dell’esercito e l’auspicio di un veloce ritorno alla pace, ma poche azioni concrete per mitigare il conflitto.
Sin da subito i Paesi dell’associazione si erano divisi tra chi preferiva non intervenire negli affari esteri di un Paese membro, come Tailandia e Cambogia, e chi, come Indonesia e Malaysia, chiedeva una condanna forte delle azioni della giunta birmana. I leader del Sud-est asiatico, incluso quello della giunta birmana Min Aung Hlaing, nell’aprile 2021 avevano trovato un compromesso con il cosiddetto five-points consensus, un accordo il cui primo punto prevedeva la sospensione delle violenze nel Paese. Tuttavia, in oltre un anno da quell’accordo non ci sono state azioni significative della giunta affinché realizzasse gli impegni presi. Poi c’è stato il divieto imposto alla giunta di rappresentare il Paese ai Summit ASEAN e infatti in Cambogia il seggio birmano è rimasto vuoto. Soliani sottolinea che al di là dei pronunciamenti ufficiali al momento è forte la pressione da parte di questi Paesi sulla giunta anche perché – ricorda – pesa la questione dei tanti profughi nei Paesi vicini. E dunque secondo Soliani potrebbe concretizzarsi l’ipotesi di cui – dice – si parla da giorni di un possibile rilascio dei leader dell’opposizione che hanno oltre 75 anni, che comprenderebbe la San Suu Kyi e anche l’ex presidente.
Un Paese di grandi risorse
Parlando di risorse, Soliani cita innanzitutto le risorse spirituali del Myanmar, ricordando che si tratta di un popolo che sostanzialmente ha sempre scelto o cercato di scegliere modalità di non violenza nella sua battaglia portata avanti da anni per la democrazia. Soliani sottolinea che la violenza della repressione infatti stride molto con una resistenza – sottolinea – che usa le armi in difesa. Soliani poi ricorda che la popolazione è in gravi difficoltà economiche ma che si tratta di un Paese ricchissimo di risorse, a partire da quelle minerarie e di idrocarburi, per non parlare delle cosiddette terre rare, cioè le sostanze utili per la più moderna tecnologia. Inoltre Soliani mette in luce un aspetto culturale importante: si tratta – afferma - del Paese che in Oriente lotta per la democrazia.
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