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Giorno della Memoria, la storia del sopravvissuto Mosè Dana nel racconto della figlia

L'arresto, la deportazione da Milano al campo di Bergen-Belsen, la fame patita in undici mesi di prigionia all'età di dodici anni. La storia di un ebreo di origine turca, morto nel 2010. Margherita Dana: "Per quanto possiamo sforzarci, non possiamo mettere la mano sul fuoco che certi errori non si ricommettano". L'importante, avverte, è svuotare di retorica questa tragica ricorrenza e sfruttarla come occasione per conoscere davvero il popolo ebraico

Antonella Palermo - Città del Vaticano

Undici mesi nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Uscirne vivo. E sognare ogni notte, fino alla fine dei giorni, il 5 gennaio 2010, quel rumore di zoccoli dei prigionieri da Auschwitz che in bassa Sassonia arrivavano per il loro tragico epilogo: file interminabili di scheletri vestiti di stracci. La storia di Mosè Dana, ebreo di origine turca, è stata quella di un deportato da Milano, dove viveva con la sua famiglia, quando aveva appena dodici anni. Il suo racconto fu consegnato a voce a Liliana Picciotto, per il progetto Archivio della Memoria (Fondazione Centro di Documentazione Ebraica, Milano) e compare nel libro "Salvarsi. Gli ebrei d'Italia sfuggiti alla Shoah. 1943-1945". Oggi, nella Giornata della Memoria, è la figlia di Mosè, Margherita Dana, impegnata nell'Associazione Figli della Shoah, a ripercorrerne nuovamente i dolori nell'auspicio che gli stessi errori della storia non si compiano mai più.

Nessuno può essere sicuro che quegli errori non si ripetano

"Avevo paura che quello che io leggevo potesse ricapitare a me, ai miei figli, a quelli che stanno intorno a me. Perché, per quanto possiamo sforzarci, non possiamo mettere la mano sul fuoco che certi errori non si possano ricommettere". Così Margherita Dana, con un sorriso pacato e disarmante, ci concede di entrare nel vissuto delle sue radici. 

Ascolta l'intervista integrale a Margherita Dana

Mosè Dana abitava insieme ad alcune famiglie di religione ebraica in una di quelle case di ringhiera con lunghi ballatoi nella Milano degli anni '30. Si giocava con i soldatini di carta e a palla. Ben altri soldati avrebbero fatto di lì a poco incursione nella sua infanzia. Nel frattempo era capitato che proprio quei coetanei, con cui sentiva di non essere a disagio, gli urlassero "ebreo, ebreo!" per poi scappare come topi. La stretta nella mano gigante del papà era l'unica rassicurazione per allora. Gli anni cominciavano a divenire cupi: fu tolta la cittadinanza, ritirata la licenza di venditori ambulanti, impedito di andare a scuola. Lasciare l'Italia non era semplice. I giovani andavano ad arruolarsi per la guerra, cominciavano gli allarmi notturni, i ricoveri in cantina. Amici di famiglia ospitarono Mosè e i suoi a Brescia: qui la scuola si poteva frequentare, persino fare tornei di bocce, andare a pescare. Ma durò troppo poco. Arrivò l'ordine di arresto per tutti. Prima ci fu il passaggio nel carcere di San Vittore, in celle enormi dove giungevano voci che i nazisti torturassero le persone e facessero ripulire i gabinetti con la lingua. Arrivò poi anche per loro il giorno di partire, prima con un camion verso la stazione centrale di Milano, poi in un treno nausente e urlante di bambini, senza aria. La prima fermata al Brennero. Qui Mosè andò dietro la ferrovia, con la mamma, per fare i bisogni dopo aver a lungo trattenuto: da dietro quel cespuglio si poteva anche decidere di fuggire. Ma i tedeschi avevano intimato che, se qualcuno ci avesse provato, avrebbero fucilato tutti.

La fame, il freddo, i pidocchi

A Bergen-Belsen Mosè temeva di continuo che i pugni e le botte del kapò al suo compagno di baracca sarebbero presto stati inflitti anche a lui. Per l'appello quotidiano "ci tenevano in piedi per 4 o 5 ore in fila per cinque fino a che arrivava un soldato delle SS incaricato del conteggio". L'inverno era freddissimo e durissimo soprattutto per gli anziani: "Eravamo tutti convinti che da lì non saremmo usciti vivi". La recita di canti e balli per la festa di Hanukka era il tentativo di tenere alto il morale. I letti erano tavole di legno e basta, le coperte piene di pidocchi, la latrina un buco nel terreno. L'unica consolazione era che la famiglia non fu smembrata tra i vari campi. "Un giorno un ragazzo della nostra baracca non obbedì ad un ordine di un SS e per punizione lo costrinsero a rimanere nudo fuori. Lo annaffiavano con una pompa dell'acqua. La mattina lo trovammo morto". Le botte Mosè le ricevette, ce lo racconta Margherita. Fu quando rubò una rapa: tanto dolore ma anche l’orgoglio di essere riusciti a portarsi via un pezzettino di rapa per poter calmare un po’ il vuoto nello stomaco. Perché la fame era tanta. Un giorno Mosè decise di rinunciare a un pezzetto della sua porzione di pane per cederla alla sua sorella più piccola che piangeva per gli stenti. 

Tornare in una casa svuotata

Pochi mesi prima della fine della guerra, grazie al loro passaporto turco, i Dana furono liberati dalla Croce Rossa Turca. Era il 4 marzo del 1945. Il viaggio di ritorno non fu cosa facile, durò circa un anno. Quando giunsero a Milano videro la casa che era stata svuotata di tutto. I parenti non c'erano e nemmeno le altre famiglie ebree. La maggior parte era morta nei campi. Il papà di Mosè tornò gravemente malato e non fu più in grado di lavorare. Mosè e il fratello furono costretti a cercare un’occupazione rinunciando definitivamente agli studi. Le tre figlie di Margherita hanno avuto la fortuna di crescere con i loro nonni, di ascoltarne le storie, si sentono il carico di responsabilità nel tenere vivo il ricordo di questa tragedia. Lo hanno visto piangere, dice Margherita, quando erano ancora molto piccole e nemmeno ben si rendevano conto della portata della Shoah, tuttavia già percepivano che si fosse trattato di "qualcosa di veramente brutto". 

Il popolo ebraico non deve essere solo sinonimo di Shoah

Ma come e dove si trova l'energia per una forma di riconciliazione interiore che vada oltre il vittimismo, il disincanto, la rivendicazione? "La parola vittimismo è una parola che cerco proprio di allontanare perché non mi piace sentir parlare del popolo ebraico riferendolo solamente alle vittime della Shoah", sottolinea Margherita. "Il popolo ebraico aveva una vita prima e ha una vita oggi. Aveva una vita molto vivace prima della Shoah, poi c’è stata purtroppo questa parentesi drammatica ma la vita è ripresa e quindi preferirei, mi piacerebbe che proprio fosse il Giorno della Memoria uno spunto, un punto di partenza per conoscere chi sono gli ebrei. Si parte dal Giorno della Memoria, dalla sofferenza, ma per capire veramente chi sono, chi siamo ognuno nel proprio Paese, nel proprio ambito, nella nostra integrazione nella società circostante". 

"Il Giorno della Memoria sia svuotato di retorica"

"Dobbiamo stare attenti a non cadere nella retorica, a non cadere nel fatto che sia un giorno che va commemorato perché dobbiamo, ma che davvero sia un momento di riflessione per tutti". È l'avvertimento di Margherita che riconosce i rischi - lo ha fatto peraltro anche la senatrice Liliana Segre - della sovraesposizione mediatica dei sopravvissuti e dei familiari, "forse la gente potrà stancarsi...". "Però combatteremo fino all’ultimo - conclude - perché questo giorno sia un giorno davvero importante dal quale partire e sensibilizzare tutto il mondo circostante su quello che è capitato".

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27 gennaio 2023, 09:09