Edith Bruck: “Difficile immaginare un mondo in pace, ma c’è sempre una luce”
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
Nella voce ferma di questa donna minuta e apparentemente fragile si avverte una nota che sa di rammarico. È un’impressione ma arriva quando, nel vocale WhatsApp che Edith Bruck ci ha inviato, c’è un passaggio che fa pensare: “Quello che ho visto non si potrà mai fino in fondo raccontare”. Lei, scrittrice e poetessa ungherese, è anche un’instancabile testimone della Shoah a cui, realizzando il podcast Le Chiavi di Pietro, dedicato alle parole del Papa, abbiamo pensato per ascoltare come si vive una volta che si incrocia la follia della guerra. Un copione che allora, nel corso della Seconda Guerra mondiale, come oggi si ripete identico per l’Ucraina.
“Tutte le guerre ci riguardano”
Ascoltare Edith Bruck significa ascoltare le parole di una donna saggia: lei che a soli 13 anni, nel 1944, venne portata, insieme ai suoi genitori e ai suoi due fratelli, nei lager di Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen. In questi luoghi dell’orrore perde gli affetti più cari. Sopravvivere ad un’esperienza simile investe della responsabilità di testimoniare, di dire ad un mondo sordo e incapace di trarre insegnamenti dal passato che la guerra è una insensata follia. “Io penso – spiega Edith Bruck - che l'uomo nasca con un pizzico di follia”. Parole che fanno subito tornare con la memoria a quando aveva 8-9 anni e la mamma diceva che “un uomo non fa altro che segare l'albero sul quale vive”. “Non capivo allora cosa significasse questo. Ma posso affermare che da quanto sono al mondo, da oltre 90 anni, c’è sempre stata una guerra, sempre ininterrottamente da qualche parte. E credo che tutte le guerre ci riguardino, non soltanto quelle che sono dietro la porta vicino a noi, ma tutte”.
Nessun insegnamento dalla mostruosità
Uccidere e morire ingiustamente. Le parole diventano ganci per afferrare quello che si vorrebbe dimenticare. “È inimmaginabile – afferma la scrittrice - quello che ho visto io, quello di cui è capace un uomo. Naturalmente io parlo della Seconda Guerra mondiale: sono stata ad Auschwitz, sono sopravvissuta - non so come, forse per miracolo - quello che ho visto non si potrà mai fino in fondo raccontare. Quello che è in grado di fare un essere umano contro un altro essere umano, è una cosa che da sempre, ovunque c'è la guerra, mi offende e in qualche maniera mi ferisce. Perché l'uomo non migliora ma ricomincia da capo, e non impara dai propri misfatti, dalle proprie mostruosità che fa oggi e ha fatto ieri e sicuramente farà anche domani”.
La luce che inonda la stanza
Edith Bruck ci porta nel buio pesto, ci racconta che “è molto difficile immaginare un mondo in pace”. Un mondo dedito alla produzione delle armi – “dal bastone siamo arrivati alla bomba atomica” – che corre veloce e che spazza via l’impegno a costruire la pace. “Naturalmente ci sono moltissime persone come me che vogliono la pace dappertutto, con chiunque nel mondo: bianchi e neri, ebrei e musulmani. Voglio dire: sarebbe un mondo meraviglioso di pace, sarebbe un mondo ricchissimo di fratellanza e ci vorrebbe poco, non è che ci vuole molto per fare un po' di bene, giorno per giorno”. Un desiderio che va oltre “i pregiudizi, i razzismi, gli interessi, la voglia di accumulare, perché – aggiunge la poetessa - pensiamo che attraverso l'accumulo sopravviveremo”. Il buio si può diradare. È questo l’insegnamento della Bruck, è lei stessa che ci sprona a crederci. “Non posso dire che sono ottimista, ma non voglio neanche essere pessimista, perché un po' di luce in questo buio totale del mondo c'è sempre... e quindi non è tutto sempre nero”. Il suo vocale si chiude con un invito, è una porta che si apre, una luce che inonda la stanza. “In qualche maniera ognuno di noi può fare qualcosa: quel poco che possiamo fare, facciamolo!”.
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