Disegnare per raccontarsi, una storia di carcere e "cubismo"
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Ci sono colori fluo, “quelli tipici dei luoghi di reclusione”, scritte deformate, animali fluttuanti “che si rifanno al mondo dell’onirico e del metafisico”, ma anche oggetti molto terreni come la televisione, perché “alcuni in carcere non fanno altro che guardarla”, nelle opere di Luigi Gallini, ex detenuto del reparto di osservazione psichiatrica Il Sestante della casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, oggi ospite di una comunità forense. E poi gli occhi, onnipresenti: “Sono gli occhi degli operatori, perché noi siamo sorvegliati a vista, ma più in generale volevo rappresentare anche l’odierna civiltà del controllo”, spiega.
L’arte come strumento ineguagliabile di comunicazione
Quella di Luigi è una storia difficile, che però lui racconta con una naturalezza e un candore che spiazzano: la parte “allucinante” della sua vita, come lui stesso la definisce, inizia tre anni fa con l’arresto e poi il trasferimento nella comunità dove oggi risiede. “Sto facendo l’esperienza di ritrovarmi attraverso la follia", racconta a Vatican News di sé, sottolineando che la parte peggiore della sua vita è ancora lontano dall’essere conclusa, "con queste opere scrivo la mia autobiografia giorno per giorno utilizzando le immagini al posto delle parole per esprimere la mia perplessità, tra le altre sensazioni”. Un rapporto, quello con l’arte, per lui fatto di quotidianità: “Pubblico tutti i miei disegni, i miei schizzi e le mie foto su facebook. Per me è un’occasione per comunicare, innanzitutto con me stesso, quello che le parole non bastano a esprimere; nei momenti di stress della mia vita ho sempre disegnato e ultimamente da recluso ho riabbracciato la mia passione per il surreale e l’astratto”.
Una storia difficile, ma sempre con la matita in mano
La storia di sofferenza di Luigi parte da lontano: un’infanzia difficile fatta di genitori separati e di un affidamento ai nonni; in seguito vivrà nelle Comuni rosse della Torino degli anni Settanta, ma la passione per l’arte lo ha sempre accompagnato: “Me l’ha trasmessa mia nonna che mi portava nelle gallerie a vedere i quadri e voleva fare di me un artista – rivela – così l’arte mi è entrata sotto pelle; in particolare mi piacciono i fumetti, le tavole che disegno oggi sono pensate proprio per essere riordinate in un futuro fumetto”. Poi c’è stato il carcere, e qui, grazie a un laboratorio di arte-terapia e drammaturgia, Luigi ha ripreso in mano la matita: “Appena ho potuto ho comperato un diario sul quale ho ripreso a fare i miei schizzi, che ora hanno per protagonista il mio ‘carcere cubista’”. Ci pensa un po’, poi mi prega di aggiungere: “Disegno perché l’arte arriva là dove non solo non arrivano le parole, come ho già detto, ma dove a volte non arriva neppure la ragione”.
Un futuro fatto di colori cupi
Per un artista i colori sono uno strumento del mestiere, ma quando a Luigi chiediamo con quali dipingerebbe il suo futuro, questi sono tutt’altro che fluo: “Non ho più un lavoro e quindi un reddito – ammette – non so se quando uscirò potrò tornare a casa o sarò mandato in una comunità alloggio; al momento attuale non so neanche quando uscirò…”. Ma un colore brillante, quello capace di illuminare un sogno, ancora c’è: “Mi piacerebbe un giorno laurearmi in scienze politiche e lavorare per i diritti dei disabili, specie quelli psichici… Come me”.
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