Naufragio a Cutro, medici e volontari a lavoro senza sosta per familiari e superstiti
Salvatore Cernuzio – Inviato a Crotone
Assan Maliki che accarezza la foto stampata al computer dei suoi tre nipotini, uno recuperato in mare, gli altri due dispersi, è una delle tante scene drammatiche che, da una settimana, si vedono a Crotone e Cutro, dove il Governo italiano ha annunciato che giovedì 9 marzo si terrà il Consiglio dei ministri. L’uomo, di Kabul, barba bianca e occhi socchiusi per il sonno e il sole, è lo zio di Akvali, il bimbo di due anni e mezzo ritrovato sabato sulla riva di Steccato di Cutro. Lui è arrivato ieri dalla Germania dopo aver appreso “dalla tv” della tragedia. Parla solo in arabo e a un conterraneo fa ripetere in inglese che ha “il cuore spezzato” per i nipoti ma anche per il fratello e la cognata, genitori dei bambini, tuttora dispersi. “Questa mattina provava ad incastrare una girandola colorata sotto la foto dei nipoti sul cancello del Palamilone, il palazzetto dello sport divenuto camera ardente delle 66 bare. Subito dopo ha accarezzato la carta con il volto dei bambini e ha baciato la sua mano. L’ha fatto tre volte.
La questione rimpatri
Assan è uno dei tanti familiari delle vittime del naufragio giunti a ciclo continuo in questi giorni in Calabria da Austria e da Australia, da Olanda, Svezia e pure Stati Uniti, per identificare i parenti e compilare i moduli per il rimpatrio delle salme. Su un tavolino, a poca distanza dalle bare, viene chiesto a papà che hanno perso moglie e figli, a figli che hanno perso i genitori, a fratelli che hanno perso sorelle e nipoti, dove desiderano che quei corpi vengano portati. Molti sono afghani e chiedono il rientro nello stesso Afghanistan per dare “degna sepoltura”; la Germania è però il Paese che più si sente nominare. Qualcuno si alza e scoppia a piangere, altri scattano foto dei documenti o parlano al cellulare ad alta voce.
Familiari disperati
La procedura è emotivamente usurante, come pure l’attesa per le sorti dei dispersi. Non sono pochi i momenti di tensione registrati in questi giorni al palasport e c’è chi dice “non ce la faccio più”. Come Abdul, anche lui afghano, da una settimana a Crotone. Ha perso la sorella, il cognato, due nipoti: “Abbiamo conosciuto (riconosciuto, ndr) quattro, mancano tre. Sono sette miei parenti”, spiega con debole italiano, reminiscenza degli anni trascorsi a Tivoli prima di trasferirsi in Germania. “Ci hanno detto che ci sono corpi in acqua, sotto la parte della barca col motore ma che non sono riusciti a entrare, ad andare lì…”. Il maltempo e il forte vento hanno rallentato infatti le ricerche di sommozzatori, Vigili del fuoco e Protezione Civile che proseguono a oltranza le attività perlustrazione, coordinate dalla Prefettura. Questa mattina, alle prime luci dell’alba, sono riprese le ricerche in mare lungo tutto il litorale e sembra che un corpo sia stato avvistato al largo di Botricello, senza che però sia riuscito il recupero. “Sì, va bene, grazie all’Italia per questo dolore insieme, ma non è giusto… sono passati tanti giorni”, lamenta Abdul.
Il sostegno della Associazione Sabir
Parole date dalla stanchezza e dalla disperazione. A tutta questa gente un pool di cassazionisti esperti in diritto internazionale offrirà gratuitamente assistenza legale. Intanto a dare sostegno, soprattutto psicologico, ci sono diverse associazioni. In prima linea l’Associazione Sabir, dal primo giorno impegnata con le famiglie e l’amministrazione pubblica per attività di mediazione e per organizzare l’ospitalità di chi è venuto dall’estero. Ramzi Libiki, volontario tunisino ma naturalizzato italiano, spiega: “Non è stato facile trovare alloggi qui a Crotone per così tante persone... Quando è arrivato il presidente Repubblica, Sergio Mattarella, ho fatto da mediatore e ho detto esplicitamente che la società sta riscontrando difficoltà nell’ospitalità. Ho chiesto se lui, come presidente, poteva darci una mano. Un’ora dopo sono arrivate la Regione e la Protezione civile per dirci che avevano messo a disposizione un hotel con 60 camere, con un autobus che li accompagna mattina e sera. Una risposta concreta…”.
Ricongiungimenti
Due sono le emergenze di questi giorni, spiega Ramzi: “Anzitutto il rimpatrio delle salme perché tante famiglie non sanno nemmeno come fare con queste procedure amministrative complicate”. “L’altra problematica - aggiunge il volontario - riguarda i sopravvissuti: cerchiamo di velocizzare il ricongiungimento familiare con i parenti per permettergli di portarli nel Paese dove sono rifugiati. Sono mamme, sorelle, bimbi e si pone anche il problema di lasciarli da soli in Italia”. Le storie che i ragazzi e le ragazze di Associazione Sabir hanno raccolto in questi giorni sono strazianti: “Ho fatto l’identificazione – dice ancora Ramzi - vedendo facce dei bambini deceduti, mamme che piangono i loro cari. Storie che non ci lasciano dormire. Quello che tutti ripetono è che questa gente cercava salvezza… Dicono sempre: una mamma non metterebbe mai il figlio in acqua, se non fosse più sicuro che in terra. Sono tragedie che non devono più accadere”.
Sopravvissuti "confinati"
Intanto è giunta oggi la notizia che la prossima settimana dovrebbe svolgersi l’incidente probatorio chiesto dalla Procura di Crotone al Gip per cristallizzare le testimonianze dei superstiti. Chi opera da una settimana al Palamilone, racconta che gli stessi sopravvissuti sono potuti uscire solo due volte dal Cara di Isola Capo Rizzuto, dove risiedono da domenica, e che per troppo breve tempo hanno avuto il permesso di venire al Palamilone per vedere le salme o abbracciare i parenti lì raggruppati. “Sono confinati in una sorta di regime di hotspot”, dice Alessandra Sciurba, co-fondatrice della Clinica legale Migrazioni e Diritti dell’Università di Palermo, che ha avuto modo di visitare il Cara nei giorni scorsi e ne denuncia le condizioni in cui verserebbero i migranti, sistemati “in due capannoni, tra bagni in comune, scarsa igiene, nessun riscaldamento”.
Testimonianze dall'Ospedale
Otto sopravvissuti al naufragio sono ancora ricoverati al locale Ospedale San Giovanni di Dio. Tra loro 3 bambini, le cui condizioni di salute “non destano preoccupazione”, spiega chi li assiste. Molti si stanno ristabilendo dopo la prima fase d’emergenza. A ricordare quei momenti drammatici è la dottoressa Catia Pacenza del Reparto Pediatria, di guardia la mattina del 26 febbraio. “Immaginavo una intensa giornata lavorativa ma con una partenza lenta. L’impatto è stato surreale... Le Oss e le infermiere sembravano api operaie disperate a volare da una barella all’altra. Su ognuna giaceva un bambino inerme, sporco di sabbia, feci, vomito, tremante per l’ipotermia ma anche per la paura”. Occhi “vacui” o “sbarrati” che lottavano tra la vita e la morte, quelli che ha visto la dottoressa in quelle ore di “stordimento e sconforto”: “I bimbi non avevano un nome, una data di nascita, erano Paziente 1, Paziente 2, scritti su braccialetti rossi”. In un’“altalena di dolore e rigore”, in questi giorni si è fatto tutto il possibile per salvare i superstiti: “Grazie alla mia squadra e a una delicata e robusta catena di solidarietà - dice Pacenza - e grazie soprattutto al Signore siamo riusciti a portare un piccolo contributo in modo da tornare a vedere volti e occhi di bambini”.
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