Neonati non riconosciuti, il dramma di mamme sole che scelgono per la vita
Marco Guerra – Città del Vaticano
Portare in grembo per nove mesi un figlio e darlo alla luce nonostante mille difficoltà e l'impossibilità di poterlo crescere è un atto d'amore che ancora stupisce e interroga, sopratutto nelle società della "cultura dello scarto" dove i più fragili sono lasciati soli. C’è quindi un drammatico altruismo alla base della scelta che fanno centinaia di donne in Italia ogni anno, partorendo in anonimato in ospedale o nei casi più rari ed estremi lasciando il neonato nelle cosiddette culle per la vita, le odierne “ruote degli innocenti” che consentono di consegnare il bambino ad un ambiente sicuro, senza essere viste ed identificate.
I casi di Milano
Le gravidanze difficili e il fenomeno dei bambini “abbandonati” sono tornati a scuotere l’opinione pubblica italiana dopo i due recenti casi entrambi avvenuti nella città di Milano, ovvero quello del giorno di Pasqua, in cui il piccolo Enea è stato depositato nella culla per la vita del Policlinico Mangiagalli, insieme ad una lettera di presentazione firmata dalla madre, e quello di mercoledì scorso che ha visto per protagonista una mamma, senza fissa dimora, che ha partorito una bambina in un capannone abbandonato per poi lasciarla all'Ospedale Buzzi, dove era stata accompagnata dal personale del 118.
300 bambini l’anno
Secondo le stime delle Società italiana di neonatologia, sono circa 300 l’anno i casi di neonati abbandonati o non riconosciuti dalle madri nei momenti o nei giorni successivi al parto. Una decisione estrema, dolorosa ma che testimonia una forte capacità di guardare al futuro oltre la disperazione e che garantisce al nascituro il primo dei diritti, quello a vivere, dai cui discendono tutti gli altri. E proprio per non mettere alcun ostacolo a questa scelta di vita, l’ordinamento giuridico italiano consente alle donne di non riconoscere il nascituro e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato, affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della donna rimane per sempre segreto e alle mamme sono concessi dieci giorni per ripensarci e tornare sui loro passi.
Dottoressa Sobillo: un atto d’amore
“È un caso che colpisce tutti, sono situazioni che ci interrogano, l’abbandono di questo bambino è un atto d’amore rispetto a scelte ben più drammatiche che a volte si leggono nella cronaca, come quelle dei bimbi lasciti nei cassonetti, al contempo è una decisione drammatica e sofferta. Noi dei Centri di aiuto alla vita ci chiediamo sempre se potevamo dare un maggiore aiuto a queste persone in difficoltà, cosa avremmo potuto fare se queste ci avessero conosciuto prima”, racconta a Vatican New, la dottoressa Soemia Sibillo, direttrice del Centro aiuto alla Vita (Cav) del Mangiagalli di Milano.
La maternità come fatto sociale
La direttrice Sibillo riferisce poi che nei Cav si sperimentano ogni giorno le difficoltà che hanno queste mamme e che le loro storie sono sempre caratterizzate da tanta solitudine a cui si aggiungono nell’80% dei casi difficoltà economiche, sociali, abitative e relazionali con i mariti e i compagni. “Quando arrivano dai noi fanno un colloquio di accoglienza ed escono con un progetto d’aiuto, dove prediamo degli impegni concreti e garantiamo prossimità, proprio per far fronte alle prime necessità”, racconta la dottoressa. “Abbiamo mamme che arrivano da ogni Paese, di ogni religione, spesso lasciate sole dai mariti e dalla famiglia di origine, che non sanno nemmeno dove vivere, offriamo quindi anche accoglienza abitativa temporanea nei nostri appartamenti”. Si tratta di progetti che danno dignità e autonomia alla mamma o alla coppia perché non sempre i compagni spariscono. “L’aiuto che offriamo dura 18 mesi, ovvero dalle prime settimane di gravidanza al primo anno del bambino, proprio per cercare di aiutarle a farcela da sole”. Un tema cruciale sottolineato dalla direttrice del Cav è la solitudine, si pensa sempre che la maternità sia un fatto privato che riguarda solo la mamma, anche quando c’è il compagno. “Dobbiamo imparare che la maternità non è un fatto solo della mamma – sottolinea Sibillo - ma riguarda tutta la società e per questo merita una tutela sociale”. Una società più giusta deve farsi carico di queste difficoltà, l'impegno deve andare dalle istituzioni al mondo del lavoro. La maternità va vissuta come una gioia per tutti. “Un bambino non nato non manca solo alla sua mamma ma a tutti noi”.
L’importanza di conoscere i Cav
Per questi motivi è fondamentale la presenza dei Cav e dei volontari per la vita in ospedali e consultori, afferma Sobillo che poi ricorda che “le culle per la vita sono scelte che si possono fare quando le si trova sul proprio cammino, i Cav sono abbastanza conosciuti ma non è mai abbastanza e farci conoscere ovunque dobbiamo porcelo come obbiettivo, proprio perché una mamma deve sentirsi libera di scegliere in consapevolezza, con un atto vero d’amore”. In questa cornice sono fondamentali i media che danno voce a questi servizi di sostegno e che possono fare la differenza di fronte ad una scelta che all’inizio può sembrare libera “ma tale non è se pensiamo a quei condizionamenti economici, famigliari, culturali e di relazione”. “A Milano ogni anno accogliamo e sosteniamo circa 1500 mamme – riferisce in conclusione Sibillo -, ogni mamma per noi è preziosa così come la vita che porta in grembo. Ci fa pensare il fatto che magari ce ne sono altrettante che non ci conoscono e che non possono usufruire del nostro aiuto”.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui