Anche il carcere, vissuto con Gesù, rende liberi
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Di lui hanno scritto molto, moltissimo, spendendo fiumi di inchiostro su quello che avrebbe e poi non avrebbe fatto, ma di lui come persona e dell’esperienza incredibilmente drammatica che ha dovuto vivere si è scritto poco, o non abbastanza. Perché la persona non è il reato che commette, o che non commette, in questo caso. Stefano Binda vive a Varese, non nasconde di aver avuto un passato “non lineare”, segnato negli anni Novanta dalla tossicodipendenza, e non nasconde neppure quella voglia di mettersi a servizio degli altri e alla sequela di Gesù che oggi lo rendono un uomo appagato e che sono stati una scoperta proprio degli anni di carcere.
“Il Signore dal seno materno mi ha chiamato”
Racconta così Binda quel periodo di buio poi illuminato dalla luce di Cristo: “Il carcere ti spoglia di tutto, dei diritti, degli affetti, perciò a un certo punto arrivi a chiederti che cosa potrebbero ancora portarti via fino a farti perdere la tua identità più profonda – spiega a Vatican News – io mi sono risposto che non volevo perdere la dignità di essere un uomo, in questo senso è stata per me anche un’esperienza di libertà”. E infatti Stefano durante la detenzione conosce gli altri detenuti, soprattutto gli stranieri, li aiuta a capire anche gli ordini più semplici superando le barriere linguistiche, impartisce anche qualche lezione di italiano: “Ho voluto immediatamente mettermi a servizio degli altri perché in carcere anche i diritti più elementari diventano bisogni – ricorda – e per me era insopportabile reprimere questo mio modo di essere, a servizio degli altri intendo, era ripugnante il pensiero di dover sospendere la mia vita e interrompere di essere l’uomo che ero e che sono”.
La preghiera come risposta
Ma non si occupava solo degli altri, in carcere, Stefano. Pur non avendo libri di preghiere, recitava a memoria quelle che conosceva e di cui ricordava le parole: “Le Lodi soprattutto – racconta – perché quando sei in un buco, nero, come una cella, con gli affetti che sono stati recisi, hai bisogno di cercare un interlocutore di cui fidarti”. Questo interlocutore Stefano lo trova in Gesù e mettendosi alla Sua sequela gli si spalancano molte verità: “Solo se posseduti dall’amore di Cristo, possiamo, come Lui, condividere il bisogno dell’uomo e in esso servirlo, servire Lui”, è la sua testimonianza.
Scarcerato, non liberato
Quando parla della fine della sua vita detentiva e della sua definitiva riabilitazione, Stefano usa sempre il termine “scarcerazione”, mai “liberazione”, ed è qualcosa che colpisce: “Se mi definissi liberato e non scarcerato avallerei che la mia libertà dipenda da qualcuno, affermerei che qualcuno ha potere su di me, mentre l’esperienza vera di libertà non è fisica, ma interiore – sorride – io in un certo senso sono stato liberato attraverso il carcere perché il mistero della Croce non si può saltare o aggirare, ma solo bevendola fino in fondo, solo attraversandola appunto, si è veramente liberi. E salvi”.
La Valle di Ezechiele: un’esperienza “stupefacente”
Quello che Stefano fa oggi, da presidente di un’associazione che si occupa di detenuti, lo trova un “naturale compimento di senso” di quello che ha sempre fatto, anche “dentro”. La Valle di Ezechiele è una realtà sfaccettata che opera nel territorio di Varese: innanzitutto c’è la cooperativa che si occupa del reinserimento al lavoro dei detenuti attraverso commesse diverse, dalla digitalizzazione dei documenti fino all’ambito artistico e di gestione addirittura di un birrificio, “il lavoro dei ristretti è conveniente per la società: basti pensare che abbatte la recidiva dal 78 all’8-9%”. Poi c’è l'organizzazione di volontariato che forma gli operatori destinati agli istituti di pena sulle principali problematiche che si troveranno ad affrontare al fianco dei ristretti, come, ad esempio, il rapporto con le famiglie: “Trovo stupefacenti queste persone che si dedicano ai detenuti, ai ‘reietti’ – conclude Binda – coloro che sono considerati meritevoli di nulla fino all’estremo di non avere diritti; eppure ci sono persone, lavoratori, madri e padri di famiglia, che scelgono di trascorrere del tempo con e per loro”. E Stefano Binda è certamente uno di questi.
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