Sudan, medico di Emergency: uno dei giorni peggiori della guerra, ma restiamo qui
Antonella Palermo - Città del Vaticano
A tre mesi dall'inasprimento degli scontri tra l'esercito e le forze di supporto rapido (Rfs), il Sudan è precipitato nel vortice di un tunnel sanguinoso di cui non si vede l'uscita e che, secondo quanto dichiarato il mese scorso il ministro della Sanità Haitham Mohammed Ibrahim, ha causato più di 3 mila morti e più di 6 mila feriti. Ma per medici e attivisti il bilancio reale è probabilmente molto più alto. Il procuratore della Corte penale internazionale ha dichiarato che sta indagando su nuovi presunti crimini di guerra nella regione sudanese del Darfur. Intanto, dal vertice dei Paesi confinanti, tenutosi oggi in Egitto, l’annuncio della formazione di un comitato ministeriale a livello dei capi della diplomazia per ''avviare un dialogo inclusivo per risolvere la crisi''.
Onu: decine di corpi in una fossa comune in Darfur
Come sottolinea The Guardian, è stato di almeno trenta persone uccise, soprattutto bambini e donne, il bilancio del bombardamento di un mercato avvenuto martedì 11 luglio a Omdurman, la città-gemella di Karthoum. Già sabato scorso 38 erano state le vittime nel quartiere Dar es Salaam della città, in uno degli attacchi aerei finora più sanguinosi della guerra e che le Rfs hanno attribuito all'esercito. In un terzo eccidio avvenuto negli ultimi sette giorni nella capitale, i componenti di una famiglia di nove persone sono morti in un raid aereo che ha colpito una moschea nella zona di Bahri: il padre lavorava nel luogo di culto come addetto alle preghiere. Inoltre, i corpi di almeno 87 persone, presumibilmente uccise il mese scorso dai paramiliti e dai loro alleati, sono stati sepolti in una fossa comune nel Darfur, ha denunciato il 13 luglio l'Onu. Le vittime sono state uccise nella capitale dello stato del Darfur occidentale, El-Geneina, tra il 13 e il 21 giugno e l'Rsf ha ordinato alla gente del posto di seppellirle fuori città, ha detto l'ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Operatori di Save the children fuggiti da El-Geneina
Gli operatori dell'organizzazione Save the children, che opera nel Paese dal 1983, sono stati costretti a scappare dalla città di El-Geneina: raccontano di aver visto centinaia di corpi, tra cui anche bambini, abbandonati lungo la strada, coperti di mosche, senza che si potesse distinguere finanche il sesso. "Abbiamo trascorso 49 giorni al chiuso perché fuori i cecchini non si fermavano. Il nostro unico desiderio era quello di alzarci nelle prime ore del mattino per prendere una tanica d'acqua prima che ricominciassero i combattimenti”, ha raccontato Ahmed, che ha trovato rifugio nello Stato di Kassala. "I leader della comunità - si legge dal suo racconto in un comunicato - hanno stimato che oltre 5 mila persone sono state uccise. Altre quattro scuole sono state saccheggiate e rase al suolo a El-Geneina. Ormai ci sono solo soldati, tutti i civili sono fuggiti o sono morti. Il percorso è stato molto complicato. Abbiamo incontrato decine di check point lungo la strada". Arif Noor, direttore di Save the Children in Sudan, ricorda che è essenziale che i Paesi continuino a tenere aperte le frontiere per accogliere i profughi e che siano messi in atto meccanismi per garantire che i bambini e le loro famiglie da entrambi i lati delle frontiere ricevano il sostegno necessario.
Chi può fugge fuori capitale o verso Ciad, Egitto e Sud Sudan
Le dodici settimane di combattimenti hanno trasformato Khartoum, la capitale del Sudan, in un campo di battaglia urbano. Qui le attività del Centro Salam di cardiochirurgia di Emergency proseguono per garantire la continuità delle cure necessarie alla sopravvivenza ai pazienti ancora ricoverati. A Port Sudan e a Nyala i Centri pediatrici sono aperti. Rimane invece chiuso, per motivi di sicurezza, il Centro pediatrico di Mayo. Sulla situazione drammatica riferisce il dottor Franco Masini, che racconta della "giornata peggiore" degli ultimi mesi:
"Oggi è una giornata pessima. Da stanotte si sentono rumori di armi pesanti, in continuazione. Hanno cominciato stanotte, anche con colpi di kalašnikov. Si sente sparare con rumori sordi, i letti che tremano", racconta il medico. E segnala che in capitale giorni fa sono caduti per alcune sere di seguito dei razzi che hanno distrutto alcune case e "in un paio di occasioni sono arrivati da noi dei feriti e dei morti". Poi riferisce ancora: "Ci sono notizie di combattimenti pesanti in alcune parti della città, a nord al di là del Nilo, si sentono passare in continuazione i caccia che poi bombardano, si vedono uscendo dall'ospedale delle nuvole di fumo molto alte". Spiega che la popolazione che resta cerca di sopravvivere nella paura continua. "Tre milioni di persone se ne sono andate da Khartoum. Chi ha qualche speranza, chi ha qualche parente, chi ha qualche possibilità se ne va, disperdendosi nel Paese che è abbastanza tranquillo ad eccezione del Darfur e di una città nel Kordufan in mezzo al Sudan, El-Obeid. Oppure c'è chi se n'è andato in Egitto, in Ciad, in Sud Sudan".
Il dottor Masini (Emergency): abbiamo deciso di restare
Il medico spiega che loro di Emergency sono tra i pochi che riescono a pagare i salari: "La maggior delle famiglie hanno difficoltà economiche molto pesanti. In giro si vede qualche negozio con le saracinesche mezze abbassate che nei periodi di relativa calma vende qualcosa. Le banche sono chiuse dall'inizio della guerra. Ci sono delle conseguenze sia economiche, che sociali, che sanitarie che il Paese si troverà ad affrontare se e quando questa guerra finirà. Ma al momento - lamenta - di segnali di fine della guerra ce ne sono veramento pochi".
"Noi siamo rimasti aperti facendo una valutazione anche razionale di cosa rappresentano i nostri ospedali qui, a Khartoum, a Port Sudan e a Nyala (sud Darfur), sapendo che abbiamo comunque una credibilità acquisita in vent'anni di presenza in Sudan", osserva il dottor Masini. "Quindi, pur all'interno dei rischi che ci sono sempre in una guerra, abbiamo deciso di restare aperti. Anche perché ci sono pazienti critici, pensiamo di aprire delle cliniche satellite in altre città per recuperare pazienti che si sono dispersi e hanno bisogno di cure e di terapie". Aggiunge che c'è tutto il personale locale (più di 500 dipendenti che hanno chiesto loro di rimanere). Hanno fatto questa scelta anche per loro "e perché pensavamo e pensiamo che, andando via, poi non avremmo saputo se e come avremmo trovato l'ospedale. L'appello è il solito, di sostenere l'attività di Emergency perché pensiamo di essere indipensabili in queste situazioni. Siamo uno dei pochi ospedali aperti a Khartoum e in generale nelle situazioni di guerra, siamo tra i pochi a dare un aiuto sanitario".
Una scelta ponderata: c'è bisogno di aiuto, di cure per i dispersi
Masini racconta una storia: "Quando c'è stata l'evacuazione degli italiani qualche giorno dopo l'inizio della guerra, abbiamo dovuto decidere su base volontaria se rimanere o andare. Una parte di noi ha deciso di restare. Noi prendiamo bambini da tutta l'Africa, siamo infatti l'unica cardiochirurgia completamente gratuita di tutta l'Africa e quindi li prendiamo da una trentina di Paesi. Avevamo un bambino ugandese arrivato in condizioni pessime, pensavamo fosse inoperabile. Dopo cure intensive molto forti, lo abbiamo operato, era in dialisi, intrasportabile. Non potevamo portarlo con noi, se ce ne fossimo andati sarebbe morto. Dieci anni di età, era arrivato a 19 chili, condizioni disperate. Dopo due mesi di ripresa progressiva, dieci giorni fa lo abbiamo accompagnato a Port Sudan ed è tornato in Uganda. Stava discretamente bene, tanto da tornare sulle sue gambe ed avere ancora una speranza di vita". Poi cita l'ultimo libro di Gino Strada Una persona alla volta: "Ecco, questa è una delle 'persone alla volta' che siamo riusciti a far uscire dall'ospedale e a far tornare a casa".
Il vertice dei Paesi confinanti per un "dialogo inclusivo"
Masini conclude confidando che le sorti del Sudan siano frutto di un intervento della comunità internazionale: "Non so se sarebbe sufficiente, però sicuramente sarebbe necessario un grosso impegno della comunità internazionale per fare in modo che questa crisi si risolva per via diplomatica e non con la guerra". Il vertice odierno al Cairo ha ospitato quelli che sono stati definiti i colloqui di pace di più alto profilo da quando il conflitto è scoppiato a metà aprile. Hanno partecipato i leader di Etiopia, Sud Sudan, Ciad, Eritrea, Repubblica Centrafricana e Libia. El-Sissi ha proposto un accordo di cessate il fuoco duraturo, la creazione di corridoi umanitari sicuri e un quadro di dialogo che includa tutti i partiti e gli attori politici del Sudan. Il presidente dell'Etiopia ha dichiarato che qualsiasi nuova iniziativa deve affiancarsi ad altri negoziati condotti dall'Unione Africana o rischia di "prolungare la crisi". L'Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un blocco di otto membri dell'Africa orientale e parte dell'Unione africana, ha tenuto lunedì dei colloqui di pace tra le forze rivali del Sudan. Il gruppo ha proposto di dispiegare truppe in Sudan per proteggere meglio i civili. Tuttavia, era assente la delegazione militare sudanese. Da aprile, l'Rsf e l'esercito sudanese hanno concordato almeno dieci cessate il fuoco, ma tutte le tregue sono naufragate.
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