Sudan, un missionario: a Khartoum si combatte ancora e in Darfur è guerra civile
Marco Guerra – Città del Vaticano
Una situazione da guerra civile, in cui la popolazione continua a scappare in tutte le direzioni, le principali città subiscono distruzioni e saccheggi e la Chiesa locale rischia di impoverirsi a causa della fuga di molti religiosi stranieri e locali. Questa la drammatica fotografia del Sudan scattata da un missionario italiano che si trova nel Paese africano, dove dal 15 aprile si combattono le milizie ribelli del Rapid Support Forces (Rsf) e l’esercito governativo.
La situazione bellica
Il religioso - che ha chiesto di mantenere l’anonimato per ragioni di sicurezza - racconta a Vatican News che a Khartoum continuano gli scontri mentre sui social sono diffusi video di quartieri completamente distrutti dai bombardamenti o saccheggiati da ribelli e civili. “Arrivano notizie contrastanti – riferisce - alcuni dicono che le violenze volgono al termine altri che non ci sono segni di cambiamento”. Secondo il religioso, un'altra città martoriata dai combattimenti è El-Obeid ma dal “punto di vista bellico” la situazione più “delicata” è nell’immensa regione sudoccidentale del Darfur: qui sarebbe in corso “una vera e propria guerra civile, alimentata anche da tribù locali schierate con i ribelli o con l’esercito governativo”.
La crisi umanitaria
Sul fronte umanitario - spiega ancora il missionario - la Chiesa sta assistendo molto profughi che scappano verso il Sud Sudan, si tratta della popolazione di fede cristiana di origine sud-sudanese che sta fuggendo insieme a suore e sacerdoti sudanesi. In gran parte è gente che arriva da Khartoum e che sta accedono ai campi profughi sudanesi a Renk, dove la situazione è abbastanza pesante. Infatti molti cercano di raggiungere Juba “ma il costo per il viaggio è esorbitante”. Si parla poi di colera e malaria che si stanno diffondendo nei campi profughi. Il missionario racconta pure che il flusso di profughi verso l’Egitto trova molte difficoltà ad entrare nel Paese nordafricano e che è costretto ad aspettare in zone desertiche e inospitali. Un altro fronte è quello dei profughi che dal Darfur scappano verso il Ciad ma qui le notizie sono frammentate perché ci sono solo tre parrocchie in tutta la regione sudanese del Darfur. Il missionario ha poi l’impressione che gli aiuti internazionali che arrivano a Port Sudan non riescano ad arrivare o ad essere distribuiti in maniera adeguata nelle zone di guerra.
Un conflitto tribale
Il religioso ritiene che alcuni ribelli stiano sfruttando l’odio di alcune tribù del Darfur contro l’esercito regolare. Le tribù di etnia araba sono invece schierate con l’esercito. Alla base del conflitto c’è quindi anche del risentimento tribale. “Sul piano politico l’esercito è supportato dagli islamisti e anche per questo l’Egitto non è intervenuto in suo sostegno”, sostiene il missionario, secondo cui anche la Russia ha interessi in Sudan perché si approvvigiona dell’oro delle miniere presenti nelle aree controllate dai ribelli.
Una Chiesa in emergenza
Il religioso italiano evidenzia che la maggioranza del personale ecclesiastico, sia locale sia straniero, ha lasciato il Paese perché esposto ad una violenza molto forte. Fra quelli che hanno lasciato molti sono traumatizzati, alcuni sono stati malmenati. “Difficile la scelta anche per chi è rimasto”. “Come Chiesa siamo paralizzati - prosegue - è una situazione molto confusa, i cristiani si sono sparpagliati in tutte le direzioni”. “Noi cerchiamo di assistere sia logisticamente sia finanziariamente chi cerca di scappare, ma in generale è un momento di grande confusione”, afferma il religioso, secondo il quale anche se la guerra dovesse finire domani il Paese ne uscirebbe con le “ossa rotte” e la Chiesa e “con numeri ridotti”. Quindi bisogna ripensare la presenza e l’organizzazione della Chiesa sul territorio: “Prima della guerra nella diocesi di Khartoum avevamo 60 scuole – dice - sicuramente dopo il conflitto ne avremo un numero fortemente ridotto”. Inoltre c’è il rischio per chi è partito di non tornare. Per ottenere nuovi visti di ingresso bisogna attendere anche anni.
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