Colpi di Stato in Africa: è effetto domino
Leone Spallino – Città del Vaticano
La recente sequela di putsch nella zona del Sahel ha dato origine ad un neologismo, quello di coup belt (cintura del golpe); si tratta di una striscia di territorio africano che va dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso e che contiene molti territori e Paesi notoriamente instabili, che hanno per l’appunto subito uno stravolgimento istituzionale (o più di uno) negli ultimi due o tre anni. Tra i Paesi in questione figurano il Mali, il Sudan, devastato dai conflitti interni, e il Chad, importante Stato di passaggio per le rotte migratorie. Ci sono anche il Niger, la Guinea e il Burkina Faso, nel quale la precedente giunta militare golpista è stata scalzata proprio da un altro colpo di Stato, sempre guidato dall’esercito. Tuttavia, Marco Di Liddo, direttore e analista responsabile del Desk Africa, Russia e Caucaso al Centro Studi Internazionali, ricorda che: “Il fenomeno dei colpi di Stato non è prettamente saheliano, ma riguarda tutta l’Africa, segnando, dal punto di vista storico, una drammatica continuità con il passato”. A conferma delle sue parole, l’ultimo golpe in Africa ha riguardato il Gabon, Paese che non fa parte del Sahel, dove in agosto i militari hanno preso il potere a seguito delle contestate elezioni presidenziali che avevano visto la vittoria del presidente Ali Bongo Ondimba.
La scelta dei militari
Di Liddo spiega: “La crescita dell’autoritarismo militare deriva dal fatto che le leadership politiche sono accusate di non riuscire a risolvere i problemi locali e, laddove provino a creare un bilanciamento all’interno delle istituzioni, i militari sentono messi in pericolo i propri privilegi, compiendo quindi azioni unilaterali e di forza”. Le cause, dunque, sono strutturali e i Paesi africani devono fare i conti con problemi di instabilità politica che persistono da decenni. Tuttavia, continua Di Liddo, alcune organizzazioni regionali, come l’Ecowas (Comunità economica degli Stati dell'Africa occidentale), cercano di spingere, affinché i militari golpisti abbandonino il potere e instaurino un governo democratico e civile. La possibilità di un’operazione militare in Niger, ventilata ad agosto proprio dall’Ecowas, avrebbe dovuto inserirsi in questo contesto. I regimi golpisti, però, hanno elaborato alcune contromisure per rimanere al potere. “Siglando un accordo di mutua assistenza militare contro aggressori esterni, gli Stati retti da una giunta militare di Mali, Niger e Burkina Faso esercitano un principio di deterrenza”, dice Di Liddo. Una deterrenza che renderebbe i costi di un intervento militare diretto, come quello che era stato proposto dall’Ecowas, troppo alti.
Una regione strategica
Il Sahel è di rilevanza strategica non solo per le importanti risorse presenti (prime fra tutte uranio, petrolio e bauxite), ma anche per la sua importanza in relazione alle migrazioni verso l’Europa. Nella regione circa venti milioni di persone vivono in uno stato di insicurezza alimentare e la situazione umanitaria è peggiorata dalla scarsa assistenza sanitaria disponibile ad affrontare le necessità della popolazione locale. “La giunte militari hanno come priorità quella di cementare la propria legittimità e di combattere i ribelli, dunque temi di sicurezza” - spiega Di Liddo –. “Ma non riescono e non possono realizzare attività umanitarie e di welfare sul territorio”. Da questi Paesi infatti transitano molti migranti; il Sahel è infatti considerato come un punto di partenza e una sorta di prima tappa per i migranti che dall’Africa subsahariana cercano di raggiungere il Vecchio continente, in fuga da guerre, carestie e povertà. Si tratta di una regione cruciale per l’Europa, la quale dovrebbe avere tutto l’interesse che il Sahel sia una regione stabile e che migliorino le condizioni della popolazione locale. Le giunte militari di recente instaurazione sembrano invece andare nella direzione opposta agli occhi degli europei. “Dal punto di vista internazionale, le relazioni tra i regimi golpisti e l’Occidente sono al loro punto più basso. Questo non vuol dire però – conclude Di Liddo – che questi Paesi siano isolati: al contrario, continuano a interfacciarsi con altri competitor europei come Russia, Cina e Turchia”.
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