Gli armeni del Nagorno-Karabakh costretti a ripartire da zero
Xavier Sartre – Città del Vaticano
Nel giro di poche ore, gli armeni del Nagorno-Karabakh hanno visto crollare il loro mondo. Da circa trent'anni vivevano in un territorio di fatto indipendente, all'interno dell’autoproclamata Repubblica di Artsakh, ma nel settembre di quest'anno, l'Azerbaigian ha condotto un'offensiva lampo che ha spazzato via ogni resistenza degli armeni.
Il 20 settembre, le autorità di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, sono state costrette a deporre le armi e ad annunciare poi la loro dissoluzione a partire dal 1° gennaio 2024. Per la popolazione, già duramente colpita da quasi dieci mesi di blocco imposto da attivisti azeri, che l’hanno privata di cibo e forniture mediche, si è trattato di un colpo durissimo. È così iniziato l'esodo, nel timore di una pulizia etnica, con colonne di auto allineate sulle strade, dirette in Armenia. Le famiglie hanno preso quello che potevano, lasciando dietro di sé la maggior parte dei loro beni.
La fuga in Armenia
L'Armenia ha visto dunque un afflusso di circa 120.000 persone nel giro di pochi giorni e il governo sta cercando di far fronte alla situazione. "Quando i rifugiati sono arrivati al confine armeno, si sono recati ai centri di registrazione, ma è stato un viaggio difficile perché avevano bisogno di benzina e gli azeri gliene davano poca", racconta Christina Petrosyan, giovane avvocato per i diritti umani e presidente dell'ONG Legal Culture. Insieme ad alcuni amici volontari, ha cercato di portare un po' di conforto alle famiglie che attraversano la frontiera di Goris e Vayk. "Molte persone in auto – spiega Petrosyan – si sono dovute fermare prima del confine perché avevano finito la benzina e hanno continuato a soffrire la fame per un altro giorno e un’altra notte. Quando sono arrivati ai posti di blocco, il governo e la Croce Rossa hanno dato loro dei vestiti. Ora la prima cosa di cui queste persone hanno bisogno è un alloggio”. Il governo armeno fornisce alloggi gratuiti vicino al confine, una scheda telefonica e per ogni sfollato centomila dram - la moneta armena - l'equivalente di 227 euro. Aggiungono 50.000 dram se si deve pagare l'alloggio. L'assistenza viene fornita per un periodo di sei mesi. I servizi sociali stanno anche cercando di trovare un lavoro per questi rifugiati.
Una popolazione traumatizzata
Ma l'assistenza materiale non è sufficiente, talmente è grande il trauma di queste famiglie. “Il loro stato mentale è orribile, davvero orribile", ammette Christina Petrosyan. “Quando sono andata a trovarli nelle loro nuove case per cercare di portare loro aiuto, cibo o vestiti, ho visto persone che sono arrivate qui con una sola scarpa perché, quando sono state attaccate dagli azeri, non hanno avuto il tempo di prendere l'altra. Molte persone non hanno avuto il tempo di prendere nemmeno gli attestati dei loro titoli di studio o la prova che stavano lavorando per qualcuno. Ora è difficile per loro dimostrare la propria esperienza professionale".
Lo stesso problema vale per i giovani. "È difficile dimostrare che stavano andando all'università perché non hanno avuto il tempo di preparare tutti i documenti", continua l'avvocato. “Queste persone avrebbero potuto avere buone posizioni, buoni studi, e ora non hanno nulla, sono confuse, infelici, depresse. Una donna non dorme da diversi giorni. Molte altre hanno problemi fisici. Hanno bisogno di cure mediche e mentali", spiega.
Tra speranza di ritorno e pace
Anche se ora sono in Armenia, la sensazione di paura non li ha abbandonati. "Sono pronti a piangere in qualsiasi momento", confida Christina Petrosyan, che offre il suo tempo per ascoltare le loro storie. Infatti, "hanno molta paura, come tutti gli abitanti dell'Armenia, di un altro attacco militare da parte dell'Azerbaigian". Nonostante tutto, alcuni sperano ancora di tornare a casa, che gli azeri lascino il Nagorno-Karabakh. "È davvero difficile, non si può neanche immaginare cosa significhi ricominciare da zero. Sono davvero distrutti mentalmente, fisicamente e finanziariamente", nonostante la speranza resti viva, quella di poter tornare a vivere in sicurezza, sostenuti dalla comunità internazionale.
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