Da Mariupol alla rinascita, la storia di Pavlina: Dio ci ha aiutati a uscire da un incubo
Svitlana Dukhovych – Città del Vaticano
“La cosa peggiore è stata vedere andare al rogo tutto ciò che avevamo costruito in quarant'anni di vita, e ritrovarsi solo con una busta in mano con dentro una tuta e un po’ di biancheria. Stavamo lì impietriti a guardare il palazzo in fiamme. Non piangevamo, non urlavamo…faceva freddo, c’erano quattordici gradi sotto zero, una bufera di neve”. Non è una scena di un film drammatico, ma la testimonianza della signora Pavlina, che insieme a suo marito è riuscita a lasciare Mariupol poco più di un mese dopo l’inizio dell’invasione e in seguito all’occupazione della città da parte delle truppe russe. Pavlina ci ha rilasciato un'intervista telefonica dalla regione della Transcarpazia dove lei e suo marito attualmente vivono con sua nipote Iryna e la sua famiglia: marito e due figli di sei e tre anni. Qui, in una zona decisamente più sicura, hanno trovato un alloggio grazie al sostegno della Congregazione delle Suore di Maria della Medaglia Miracolosa.
La difficoltà di lasciare
Il 24 febbraio del 2022, quando gli abitanti di Mariupol, come anche quelli delle altre città ucraine, hanno sentito le prime esplosioni, Iryna, insieme a suo marito e ai piccoli figli, ha deciso di lasciare la città e aveva chiesto ai nonni di partire insieme a loro. I nonni non avevano voluto lasciare il posto dove avevano trascorso tutta la loro vita. “Ho 76 anni, e mio marito ne ha 70, – racconta Pavlina. – Siamo tutti e due laureati, abbiamo lavorato per 40 anni – io come tecnologa della ristorazione e mio marito come capo ingegnere in una fabbrica – e ci siamo guadagnati la pensione. Per noi era difficile lasciare tutto, lasciare il nostro appartamento, pensavamo che in un paio di giorni tutto si sarebbe sistemato. Non avrei mai pensato che avremmo dovuto vivere questa terribile esperienza”.
Il palazzo in fiamme
La situazione peggiorava ogni giorno. Il 1° marzo nel quartiere dove viveva la coppia, è andata via la luce, il gas e l’acqua – non c’era più niente. I russi lanciavano i razzi uno dopo l’altro, distruggevano i palazzi, tutto. “Per proteggerсi, abbiamo iniziato a scendere negli scantinati, anche se per noi anziani era difficile scendere giù, – ricorda Pavlina. – Mentre scendevamo, i soldati russi ci gridavano di lasciare le chiavi e gli appartamenti aperti. Quando siamo risaliti, abbiamo visto le nostre case saccheggiate. Un altro giorno siamo saliti e le finestre erano state spaccate dai bombardamenti. Ho pensato: ‘Va bene, sistemeremo, raccoglieremo i vetri’. Ma poi cominciarono a volare razzi su razzi e le porte furono sfondate. Un giorno mentre eravamo nello scantinato, abbiamo sentito odore di bruciato. Le giovani donne del nostro condominio, che erano lì con loro figli, sono salite per vedere cosa era successo e ci hanno detto: ‘Sta bruciando tutto’. Siamo saliti di fretta con la nostra piccola busta in mano, ci siamo messi accanto alla staccionata e abbiamo osservato il palazzo bruciare”.
La paura di Iryna
Nel frattempo Iryna era arrivata nella regione della Transcarpazia. “Quando siamo partiti, non sapevamo dove andare, non sapevamo dove passare la notte, – ricorda la giovane donna. – Nei primi giorni, in Transcarpazia tutti gli alberghi, motel e gli ostelli erano pieni. Per un po’ siamo stati ospitati dalle persone del posto che ci hanno offerto vestiti e una stanza. Per tutto il mese non sapevo nemmeno se i nonni fossero vivi, perché non c'era nessun collegamento, niente”.Le immagini di Mariupol distrutto giravano in tutto il mondo, però avere le informazioni dei propri cari o amici rimasti lì era molto difficile perché tutti i canali di comunicazione erano interrotti. Qualche volta alcuni giovani di Mariupol salivano sui tetti di edifici alti e riuscivano ad inviare e ricevere qualche messaggio. In questo modo Iryna è riuscita a contattare un conoscente, ex-compagno di scuola, che è andato nel quartiere dei suoi nonni. “Quando è tornato, – ricorda, – mi ha scritto che aveva visto due cadaveri bruciati vicino all'ingresso del palazzo e che era impossibile identificarli. Non sapevo cosa pensare. Avevo anche visto una foto su Internet in cui si vedeva il palazzo bruciato. Quel mese è stato per me un inferno”.
Oltre la fame e la sete
Dopo aver visto il proprio palazzo inghiottito dalle fiamme, i nonni di Iryna, come gli altri condomini, non sapevano dove andare. Alcuni soldati russi che si trovavano vicino gli hanno permesso di andare a dormire in un grande negozio di elettrodomestici, che era vuoto perché era stato saccheggiato. “Abbiamo passato lì altri quindici giorni, abbiamo dormito sul cartone e sui pezzi di gommapiuma. – Ricorda Pavlina con commozione. – Nessuno ci procurava ne cibo, ne acqua. Non si poteva uscire perché era pericoloso, però le donne più giovani riuscivano a convincere i militari russi a farle uscire per prendere dell’acqua. Io chiedevo alle ragazze di riempire per me e per mio marito una bottiglietta. Le ragazze correvano velocemente per prenderne un po’ e dissetare loro figli, però erano molto generose e riempivano anche la nostra bottiglietta. Io e mio marito cercavamo di risparmiare l’acqua, la sorseggiavamo soltanto, perché non sapevamo se ne avremmo avuta il giorno seguente”. Anche la fame si riusciva a superare grazie a quelle piccole scorte di cibo che ognuno ha portato con sé e che condivideva con gli altri.
Le fatiche del viaggio
Dopo due settimane i militari russi hanno permesso alla gente che si era rifugiata in quel negozio abbandonato, di andare a piedi alla fermata degli autobus di evacuazione che poteva portarli nella zona controllata dall’esercito ucraino. Partiti alle 5:00 del mattino, sono arrivati lì alle 8:30, seguendo rigidamente le istruzioni dei militari per evitare le mine che erano dappertutto. Pavlina e suo marito erano esausti. “Il mio corpo si era gonfiato, anche perché ho soltanto un rene. Anche mio marito ha dei problemi di salute, – racconta la donna. – Quando siamo arrivati al posto da dove partivano gli autobus, c’erano tante persone, però visto il nostro stato di salute, ho supplicato uno dei soldati di farci saltare la fila e farci salire prima, lui l’ha fatto”.
"Grazie a Dio e alle persone buone"
Con l’autobus la coppia è arrivata a Zaporizhzhia e da lì con treno a Berdychiv dove vive la sorella di Pavlina. “Siamo rimasti lì per un mese e mezzo, ci siamo ripresi: ci è tornata la voce e il gonfiore è passato, – dice Pavlina. – Nel frattempo, mia nipote ha trovato una casa nella regione di Transcarpazia e siamo andati a vivere con lei, suo marito e loro due figli”. La sofferenza subita ha lasciato dei segni non solo nella memoria di Pavlina, ma anche sulla sua salute: le hanno diagnosticato un glaucoma ad un occhio, probabilmente a causa della polvere. Non dimentica nessun dettaglio di quel vissuto così terribile, però non ha smesso di credere nel bene, non ha perso la fiducia in Dio. “Ho iniziato a credere ancora di più che Dio esiste, – dice. – Grazie a Dio, e solo a Dio, siamo riusciti ad uscire da quel terribile inferno, da quell'incubo. Non so per quale miracolo siamo sopravvissuti... solo grazie al Signore Dio e alle persone buone”.
Una famiglia di nuovo insieme
Pavlina è grata anche a sua nipote Iryna che adesso si prende cura dei nonni. La giovane donna dice che non si immagina vivere lontano da loro perché quando vivevano tutti a Mariupol, loro spesso si prendevano cura di lei. “Mi hanno fatto crescere, – afferma, – come potrei lasciarli soli adesso? Non mi viene nemmeno in mente una cosa del genere. Quel mese quando non sapevo cosa stava succedendo con loro, è stato per me terribile e quando finalmente eravamo tutti insieme, mi sono sentita tranquilla. Le persone anziane devono assolutamente stare vicino ai loro parenti più giovani, perché oggi possono stare bene, ma la sera o la mattina possono sentirsi male. E quando due anziani sono soli, l’altro a volte può entrare in confusione, non sapere cosa fare o come chiedere aiuto”.
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