JFK, la fiaba di Camelot e quella nostalgia per un’America che non c’è più
di Enrico Beltramini (*)
L’appuntamento con la Storia, quella con la S maiuscola, avvenne nel 1962 con la crisi di Cuba. John Fitzgerald Kennedy aveva quarantacinque anni ed era presidente degli Stati Uniti da ventuno mesi. Ufficiale decorato per atti di eroismo compiuti durante la seconda guerra mondiale, egli aveva un’istintiva diffidenza dei militari e un’infinita fiducia nel fratello Robert. Il combinato disposto lo spinse a mediare con Nikita Krusciov e a propendere per una soluzione diplomatica. Quando tutti, incluso il Papa Buono, Giovanni XXIII , temevano lo scoppio della guerra atomica, Kennedy chiuse l’accordo con i russi sulla base di una semplice transazione militare: «Via i tuoi missili da Cuba, via i miei dalla Turchia».
La crisi di Cuba resta, allo stesso tempo, il pinnacolo della sua presidenza e la rappresentazione plastica del realismo che contraddistinse la sua visione degli affari pubblici.
Kennedy era politicamente prudente e conservatore, per quanto lo potesse essere un democratico all’inizio degli anni Sessanta. Era prudente nel senso che non aveva alcuna intenzione di impegnarsi in Vietnam, dove al colonialismo francese era succeduta l’infiltrazione comunista.
I suoi generali lo convinsero a trasformare i “consiglieri” inviati dal suo predecessore, Dwight Eisenhower, in una truppa non combattente composta da circa 15.000 soldati. Poi i generali cominciarono a chiedere più truppe e lui fece finta di niente. L’invasione della Baia dei Porci, a Cuba, resta una macchia indelebile nella sua carriera. Fu un fallimento, un’esperienza umiliante: appena insediato, aveva dato ascolto ai militari che gli avevano promesso la vittoria.
Non commetterà lo stesso errore. La sua presidenza, per quanto breve, fu un’era di pace.
Kennedy era prudente anche nel senso che non voleva farsi coinvolgere nella campagna dei diritti civili guidata, tra gli altri, dal reverendo Martin Luther King. Pur avendolo incontrato, non aveva un rapporto personale con King. Ne ammirava le doti retoriche: «That man can speak, (quell’uomo sa parlare)», disse dopo aver ascoltato alla televisione il famoso discorso di King (la rielaborazione di un passo del profeta Ezechiele) sul sogno di una società post razziale.
Il presidente aveva bisogno dei voti degli Stati del sud (Georgia, Alabama, Mississippi e via dicendo) per essere rieletto nel 1964 e non aveva intenzione di perdere i voti dei bianchi per concessioni fatte ai neri. Fu suo fratello Robert, allora ministro della Giustizia, che autorizzò l’intercettazione del telefono di casa King ad Atlanta, Georgia. Luther King troverà un ben altro tipo di alleato in Johnson — che tuttavia mantenne l’autorizzazione all’intercettazione.
Kennedy era conservatore nel senso liberale del termine: era un centrista. Aveva preso a prestito da un gigante della politica californiana, Pat Brown, la metafora della canoa. Se voghi sempre a destra, cadi. Se voghi sempre a sinistra, cadi. Per non cadere, devi dare una vogata a destra e una a sinistra. Kennedy era un centrista nel senso che credeva nel lento, autonomo progresso della storia e non nel gesto decisivo dell’individuo. Amava dire che, quando la marea si alza, nessuna barca resta in secca. Non era un riformista. Credeva nell’ordine americano ma a volte, soprattutto nelle conversazioni non ufficiali, rivelava un insospettabile, acuto senso della precarietà delle istituzioni umane. Era un modernizzatore: voleva modernizzare la macchina governativa con l’inserimento di persone che provenivano dal privato. Era un tecnocrate ante-litteram, sebbene sempre rispettoso delle forme cerimoniali e del sottobosco politico che gli avevano consegnato la presidenza.
Mostrò una certa vena riformista soltanto in politica economica. Kennedy ascoltò i suoi consiglieri economici e decise un taglio delle tasse che mise più soldi nelle tasche della classe media americana. Mentre gli economisti di Ronald Reagan stimoleranno l’economia con un taglio delle tasse indirizzato ai produttori, Kennedy tagliò le tasse ai consumatori. Il taglio ci mise un po’ ad essere approvato e, alla fine, favorì Lyndon Johnson. Il risultato fu un tasso di crescita del 6 per cento.
Come Richard Nixon, Kennedy credeva che la generazione che aveva combattuto la seconda guerra mondiale si fosse guadagnata il diritto a guidare il Paese. La campagna elettorale del 1960 fu lo scontro tra due veterani di guerra. Kennedy vinse nel 1960 e Nixon otto anni dopo. Il primo era un politico che andava a prendere i voti degli elettori della strada, era fotogenico e approfittò della crescente influenza della televisione in politica. Come si scoprirà anni dopo, la sua elezione mise in moto un movimento conservatore che produrrà due candidati alla presidenza: Barry Goldwater, che non ce la farà, e Ronald Reagan. Dall’altro lato, Nixon era un creatore di coalizioni, stringeva accordi con i portatori di voti e inventò una strategia, quella dei conservatori sudisti, che al tempo sembrò un ossimoro e invece si rivelò di conseguenze epocali: portò Nixon alla Casa Bianca e cambiò la politica americana per mezzo secolo. Chi si ricorda adesso che gli Stati del Sud sono stati un fortino democratico?
Secondo candidato cattolico alla presidenza, Kennedy era determinato a non fare la fine del primo, Al Smith, che passò alla storia per essere uno dei meno competitivi. Davanti a una platea di pastori protestanti riuniti a Houston, Texas, per ascoltare l’aspirante presidente, Kennedy mise in chiaro che la sua fede non interferiva sulle decisioni politiche. E onorò la promessa. Paradossalmente, durante la sua presidenza il solco tra Chiesa e Stato si allargò: il secolarismo americano, a differenza di quello europeo, è costruito per difendere la religione dall’intrusione dello Stato. Il problema di Kennedy, tuttavia, era l’opposto. Così, per non farsi identificare come appartenente ad una minoranza religiosa, Kennedy mantenne la sua fede a livello strettamente privato.
Fiducioso (soprattutto in se stesso), ironico, aveva il dono di far sembrare facili le cose più difficili. Raramente cadeva nel dubbio o mostrava tracce di irresolutezza. Amava decidere ed essere attorniato da persone intelligenti; i suoi discorsi erano preparati, ma lui li interpretava con le doti di un attore consumato. Non era cinico, ma certamente scettico sulle presunte virtù della natura umana. Aveva un forte senso della fragilità della vita, forse un retaggio della sua educazione cattolica, forse un’eredità prodotta dalle lesioni maturate in guerra. Quelle lesioni alla schiena, che lui nascondeva in pubblico, lo perseguitarono per il resto della vita.
Aveva una moglie, Jacqueline, bella e di ampia cultura: lui l’ammirava, ma la tradiva. Dei due figli, Caroline e John Jr., soltanto la prima sopravvive: oggi è ambasciatrice degli Stati Uniti in Australia.
John Fitzgerald Kennedy è stato l’ultimo presidente a morire nell’esercizio delle sue funzioni. Dopo Dallas, i presidenti hanno smesso di viaggiare su auto decapottabili e tenere discorsi all’aperto senza vetri di protezione.
Il mito di Camelot, un’invenzione di Jacqueline posteriore all’assassinio del marito, è molto più correttamente la nostalgia per un’America che non c’è più. Era un’America ancora relativamente innocente, in cui la vita privata dei politici era off limit, i programmi televisivi iniziavano alle quattro del pomeriggio e i film erano ancora distribuiti nelle sale cinematografiche dei paesi rurali del Midwest. Gli americani compravano l’auto con lo stipendio di un mese e la casa con lo stipendio di un anno. Il futuro era roseo e la luna abbordabile. Poi vennero il Vietnam, il Watergate, l’assassinio del fratello Robert e quello di Martin Luther King, l’inflazione. Oggi Kennedy avrebbe centosei anni: impossibile pensarlo vecchio.
(* professore emerito alla Notre Dame de Namur University, California)
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