Il Museo della Memoria ad Assisi: una storia che parla di salvezza
Marina Tomarro - Città del Vaticano
Assisi città della pace. Ma non solo. Assisi è stato anche il luogo dove durante la seconda guerra mondiale, nei giorni bui della persecuzione razziale, tante persone sono riuscite a trovare scampo potendo fuggire là dove non sarebbero state più perseguitate. Una storia che è venuta alla luce piano piano, e che nel 2011 ha visto anche pieno riconoscimento attraverso la nascita di un Museo della Memoria.
Una memoria conservata nei sotterranei del Vescovado
“Il mio desiderio di far conoscere a tutti questo lato inedito della storia della mia città nasce da ragazzina dopo aver letto il libro “Assisi underground” e aver visto il film che ne fu tratto – racconta Marina Rosati giornalista e curatrice del Museo –. Poi da adulta ho avuto il piacere di conoscere Leonardo Brunacci che era tra coloro che avevano salvato le famiglie ebree, e che mi raccontò tante cose, facendomi appassionare ancora di più a questa storia. Fondamentali sono state anche le due sorelle Carucci Viterbi Grazia e Mjriam, che insieme ad altre famiglie ebree, mi hanno aiutato a ricostruire la vicenda e a decidermi di provare a realizzare un vero e proprio museo che potesse raccontare a tutti la grande generosità degli abitanti di Assisi durante quegli anni così bui”. Il Museo della Memoria è stato realizzato proprio nel luogo dove molti ebrei furono nascosti, cioè i sotterranei del palazzo vescovile. “Devo ringraziare il nostro vescovo, monsignor Domenico Sorrentino, per la grande fiducia che mi ha sempre dato – continua la curatrice - infatti la realizzazione di tutto ciò è potuta avvenire grazie alla fondazione della diocesi "Opera Casa Papa Giovanni". Si tratta di alcune stanze dove sono raccolte lettere, oggetti, foto, che raccontano e testimoniano quello che successe in quel periodo”.
Una rete clandestina della salvezza
Tra i personaggi principali di questa storia sicuramente spicca il vescovo di allora, monsignor Giuseppe Placido Nicolini. “Lui aveva già creato un comitato di assistenza per gli sfollati – sottolinea Marina Rosato – senza alcuna distinzione tra religioni differenti, perché da noi giunsero oltre 4000 persone che chiedevano aiuto. A questo poi si aggiunse una rete clandestina, formata all’inizio dai suoi più stretti collaboratori, per dare rifugio a trecento ebrei”. La macchina di salvezza che si attuava immediatamente, passava attraverso varie persone e luoghi. “Di solito per gli ebrei il primo approccio era quello di chiedere aiuto al Sacro Convento – racconta ancora – dove c’era padre Michele Todde che li accoglieva e poi successivamente li smistava nei vari monasteri di clausura soprattutto, perché ritenuti i più sicuri. Lì rimanevano nascosti fino a quando riuscivano ad ottenere dei passaporti falsi, che venivano fatti anche dalle suore, con i quali riuscire a passare il confine e trovare scampo.”
Rischiare la vita per gli altri senza paura
Tra le religiose che si adoperarono maggiormente, ci furono quelle del Monastero di San Quirico che si trovavano vicino alla Curia vescovile. “La madre badessa Giuseppina Biviglio - spiega la giornalista – è stata insignita del titolo “Giusto tra le Nazioni”. Infatti, lei salvò moltissimi ebrei, ma passò anche momenti molto pericolosi, come quando una mattina alcuni soldati nazisti si presentarono in monastero dicendo di volerlo perquisire. Al suo rifiuto minacciarono di portarla via, ma lei si oppose fortemente facendo notare che era monaca di clausura, e che avrebbe potuto lasciare quel posto solo con un permesso del Papa. Alla fine desistettero, ma poteva andare in maniera molto differente!”.
Bartali: la bicicletta che portò la salvezza
Tra coloro che si diedero da fare soprattutto per portare i falsi passaporti da un luogo all'altro, va ricordato anche il grande campione Gino Bartali, a cui il Museo ha dedicato una stanza, riproducendo la sua cappella personale, dove lo sportivo pregava affidando le sue imprese sia umane che ciclistiche allo sguardo della Madonna. “Mio nonno – racconta la nipote Gioia Bartali – non ci ha mai parlato di quello che aveva fatto. Abbiamo saputo dopo la sua morte che aveva aiutato tantissime persone, perché per lui il bene si faceva ma non si doveva dire, e questo credo che soprattutto in un tempo come quello che viviamo, sia una grandissima lezione di umiltà”. Bartali era molto amico del vescovo Nicolini, che conoscendo la sua profonda fede e il suo senso di lealtà lo coinvolse soprattutto nel compito di trasporto dei passaporti falsificati. “Per aiutare queste persone – spiega Gioia – mio nonno usava il motivo dell’allenamento per portare i passaporti da Assisi a Firenze, si tratta di oltre 350 km, che lui faceva in un giorno, un’impresa che solo a un campione come lui poteva riuscire”.
Un esempio nello sport e nella vita
Bartali è stato riconosciuto dallo Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la memoria della Shoah di Gerusalemme, come "Giusto tra le Nazioni". “Non è stato facile questo riconoscimento – sottolinea la nipote – proprio per la grande segretezza che c’era in questa sua opera. Si stima che lui abbia salvato circa 800 ebrei, e il giornale “Pagine Ebraiche” si mobilitò affichè fosse trovato un testimone che potesse dimostrare tutta l’opera di Gino. Rispose da Israele Giorgio Goldemberg, che è diventato il testimone chiave di tutto ciò che fece mio nonno, e che raccontò questa storia, tanto nascosta che neanche mia nonna ne era a conoscenza. Lui spiegò a mio padre che riuscì ad incontrarlo, che mio nonno lo nascose in una cantina con tutta la sua famiglia, in una strada poco distante dalla sua abitazione. Volle tornare in quel luogo che lui ricordava si chiamasse Via del Bandino, ma che in realtà attualmente è Piazza Cardinale Elia dalla Costa. Se questo signore non avesse testimoniato, probabilmente non avremmo mai saputo niente”.
Gioia, oggi gira le scuole dove racconta chi era Gino Bartali, un campione non solo nello sport, ma un uomo profondamente onesto, innamorato della moglie fino alla fine dei suoi giorni, e con una fede grande, e una devozione in particolare verso Santa Teresina di Liseux. “Ricordo che una volta, - racconta la nipote - eravamo ad una gara nelle Marche a Sant’Elpidio dove io vivo, e lui mi disse: ricordati Gioia, di me si parlerà più da morto che da vivo. Al momento non ho compreso quelle parole, però alla luce di quanto è emerso ho capito cosa nonno Gino intendesse, e spero nel mio piccolo di poter contribuire alla sua gara più bella: quella di aiutare il prossimo senza nessun interesse personale”.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui