Don Bonifacio, un martire delle foibe al servizio del popolo di Dio
Marco Guerra - Città del Vaticano
Inizialmente fu l’orrore di migliaia di persone che sparirono senza lasciare tracce. Poi le persecuzioni e le discriminazioni su base etnica, politica e religiosa. Infine il sentirsi stranieri nella propria terra natale e la tragedia dell’esodo che ha portato alla perdita di ogni bene materiale, ma anche delle radici e delle relazioni umane e sociali costruite nelle comunità di origine. Tutto questo è stata la tragedia delle foibe e dell’esodo di circa 350 mila italiani dall’Istria e dalla Dalmazia dopo la Seconda Guerra mondiale, a seguito dei massacri perpetrati dal regime comunista di Tito.
Il terrore a guerra finita
Le foibe sono profonde cavità carsiche tipiche del territorio istriano nelle quali, secondo diverse stime degli storici, furono gettati - in molti casi ancora vivi - tra i 10 mila e i 20 mila italiani, nel periodo che va dal 1943 al 1947. Si è trattato di una vera e propria pulizia etnica operata dalle milizie jugoslave titine, compiuta a margine della Seconda Guerra mondiale, allo scopo di intimorire la popolazione locale, quando l’Italia perse le terre del confine nordorientale (l’Istria, Fiume e Zara) che passarono sotto il controllo della neonata Jugoslavia comunista. La paura e le violenze innescarono l’esodo che andò avanti fino alla metà degli anni Cinquanta.
L’istituzione del Giorno del ricordo
Queste pagine di storia a lungo dimenticate sono diventate memoria collettiva in Italia grazie alla legge 92 del 30 marzo 2004, che ha istituito il Giorno del Ricordo che si celebra ogni 10 febbraio. Il provvedimento è stato un passo decisivo verso la ricerca della verità e in direzione della riconciliazione tra le popolazioni che per secoli hanno vissuto in armonia in quell’estremo lembo della penisola balcanica. In Istria e Dalmazia (prima sotto la Repubblica di Venezia poi sotto l’Impero Asburgico) hanno vissuto a stretto contatto popolazioni di etnia italiana (che erano la maggioranza sulle coste) e popolazioni di etnia slava (croati e sloveni) più numerose nelle aree agricole interne. L’equilibrio e la convivenza si ruppero con il susseguirsi dei diversi regimi e i fatti sanguinosi del Novecento.
Ravalico, esule istriano: la mia famiglia fuggita dalle persecuzioni
Mario Ravalico, di 83 anni, è un esule che racconta a Radio Vaticana - Vatican News cosa sia stato vivere sotto il regime di regime jugoslavo e come in Istria prese forma una vera e propria persecuzione antireligiosa. “Sono fuggito da Pirano a Trieste nel 1954 con tutta la mia famiglia compresa mia nonna. Andammo a finire come la maggior parte degli esuli nei centri di raccolta profughi, ricordo il senso di sradicamento e il disagio”. “A 14 anni - aggiunge - non si campiscono le questioni politiche ma ci si rende conto perfettamente di cosa sta avvenendo. Capivo che stavo perdendo tutte le mie abitudini, i miei riferimenti. La scuola, gli amici, la parrocchia non c’erano più”. Mario faticò a reinserirsi ma fu aiutato dalla militanza nell’Azione Cattolica, che già coltivava fin da bambino in Istria e che ritrovò nella città di Trieste.
La persecuzione colpisce anche la Chiesa
Mario all’epoca, nonostante la giovane età, percepiva l’entità del dramma e il dolore che sta vivendo la sua gente, dopo l’arrivo delle milizie jugoslave il terrore attanagliava tutta la popolazione italiana e non solo. “Vidi piangere il mio parroco dopo un interrogatorio dell’Ozna, la polizia segreta di Tito, la gente iniziava a scappare in Italia e mio padre fu portato via per circa 9 mesi ai lavori forzati, dove subì anche la ‘rieducazione politica’. Quando tornò decidemmo di fuggire anche noi”. Mario ricorda come se fosse oggi gli anni vissuti sotto le autorità della Jugoslavia comunista fino al 1954. “La pratica religiosa era relegata al privato, furono chiuse molte realtà cattoliche, era vietato il catechismo e perfino festeggiare il Natale - afferma Ravalico - che era considerato un giorno come un altro in cui si lavorava e si andava a scuola. La mia famiglia e quella di un altro alunno lo festeggiarono ugualmente e dopo la nostra assenza i nostri genitori furono convocati a scuola per essere redarguiti”. Si era quindi istaurato un regime che aveva in odio la fede. L'esule spiega che prima furono eliminate le autorità civili italiane e la classe dirigente locale, poi il corpo insegnate e infine nel mirino della polizia politica finirono i membri del clero cattolico, perché i preti e i vescovi erano considerati alla stregua di persone che lavoravano per un governo straniero e “nemici del popolo”.
Don Bonifacio esempio di fede e coraggio
È in questa cornice di odio e discriminazioni che emerge la figura di Francesco Giovanni Bonifacio, un giovane sacerdote nato a Pirano nel 1912, che dava molto fastidio alle milizie comuniste per la presa che aveva sui giovani. Il presbitero italiano ucciso nel 1946 è stato beatificato nel 2008 da Benedetto XVI per il suo martirio in odio alla fede. Don Bonifacio era il responsabile della sezione locale di Pirano dell’Azione Cattolica. Mario Ravalico conosce tutta la vita del beato perché nel 2011 fu incaricato dalla diocesi di Trieste di indagare sulla sua morte in Croazia, dove proprio in quell’anno è stata approvata una legge che impone di ristabilire la verità rispetto a tutti i crimini commessi durante il periodo comunista. Don Bonifacio era un prete della diocesi di Capodistria nato e cresciuto a Pirano, proprio come Mario. “Mia mamma lo conosceva bene e mio zio lo aveva come compagno di scuola - racconta Mario - era un prete umile, benvoluto da tutti, anche durante il periodo fascista riuscì a mantenere una convivenza non semplice tra italiani, croati e sloveni. Don Francesco era un uomo di pace che lavorava per l’unità tra tutti nonostante i nazionalismi e l’ideologie dell’epoca”.
Il martirio di Beato Bonifacio
Mario prosegue con il racconto del servizio sacerdotale di don Bonifacio a Cittanova, sempre in Istria, dove istituisce la sezione dell’Azione Cattolica. Poi nel 1939 viene nominato cappellano a Villa Gardossi, tra Buie e Grisignana, distinguendosi sempre per le attività organizzate in favore dei giovani tra cui lo sport. In queste zone cresce il suo carisma tra tutti i fedeli. Dopo la guerra come italiano e sacerdote don Bonifacio viene guardato con sospetto dai nuovi amministratori politici jugoslavi, che guardano con fastidio la sua capacità di tenere viva la fede nel popolo di Dio e soprattutto fra i ragazzi. Per tutte queste ragioni, l’11 settembre del 1946 quattro “guardie del popolo” lo fermano in una strada di campagna e lo portano via dopo averlo picchiato e accoltellato. Il suo corpo non è mai stato trovato, ma si presume che sia finito in fondo a una delle foibe della zona. “Nelle due parrocchie dove ha fatto servizio diede vita ad una comunità che prima era divisa - continua a riferire Mario - c’è un bellissimo passo del postulatore che scrive nella positio che i giovani della zona non seguivano le indicazioni del partito ma quelle del sacerdote di Pirano”. “In un altro passaggio della positio - continua Ravalico - si legge la decisione dei vertici del partito comunista locale, che in una riunione avrebbero detto che bisognava colpire il pastore per disperdere il gregge”.
Le indagini
Sulla tragica morte di Don Francesco Bonifacio, indaga dal 2011 Mario per conto della Diocesi di Trieste e in questi anni ha avuto modo di vedere come il beato ancora illumini le persone che si sono gli si sono accostate, tramite conversioni e tanta devozione popolare. “Devo dire - spiega Mario - che ho trovato molta collaborazione da parte delle autorità croate, che vogliono finalmente fare luce su questa vicenda, stanno indagando anche su tanti presbiteri di etnia croata uccisi nel Dopoguerra in tutta la Croazia, si calcola che siano almeno 200”. Solo in Istria sono stati 13 i preti uccisi, l’ultimo è stato un sacerdote croato, Beato Miroslav Bulesic, sgozzato alla fine di una Messa in cui si celebravano le cresime, nell’agosto del 1947. Le indagini hanno portato recentemente all’ispezione di alcune foibe, dove sono stati trovati diversi resti di ossa umane ma il confronto genetico con i nipoti di don Bonifacio non ha accertato corrispondenze, ora si sta puntando su un piccolo cimitero, sempre in Istria, per verificare del materiale osseo, “spero che si arrivi presto a qualche conclusione”, è l'auspicio di Ravalio.
I segni della riconciliazione
In tutti casi, questa ricerca della verità è servita a far emergere i semi di bene lasciati dal beato, ad esempio testimonianze indirette, hanno riferito che i suoi quattro aguzzini si sono sinceramente ravveduti e negli ultimi anni di vita si sono riavvicinati alla fede cattolica. “Che Dio ci perdoni tutti disse don Bonifacio mentre lo accoltellavano”, racconta Mario riferendo le testimonianze. “A Triste e in Istria, nei luoghi della missione sacerdotale di don Bonifacio ci sono segni di grande ripresa dell’interesse e del culto per questo Beato”, riferisce ancora Ravalico, “quando andiamo sul luogo del martirio con i pellegrinaggi organizzati si percepisce questa devozione”. Si conosce il luogo del rapimento, dove fu fermato dalle guardie, e in quel posto con il concorso del vescovo di Parenzo-Pola è stato fatto costruire un piccolo cippo che lo ricorda in due lingue, italiano e croato - l’Istria è sempre stata plurilingue e questo piccolo monumento è un simbolo di unione e pacificazione. Possiamo dire quindi che il culto di don Bonifacio è un emblema della riconciliazione. “La guerra - conclude Mario - è stata uno strappo di un unicum che esisteva in quella terra. La gente si è divisa ma oggi sta prendendo un’altra strada”.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui