Emergency, a Ravenna sbarcati oltre 200 naufraghi partiti dalla Libia
Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano
Cambiano i Paesi di partenza, ma non le ragioni della fuga. Quando si lascia la propria terra è per sfuggire alla violenza del conflitto; o per cercare un lavoro sicuro; o per non soccombere alla devastazione dei cambiamenti climatici. E così è stato anche per i 202 naufraghi soccorsi dalla Life Support, di Emergency, sbarcati, dopo 4 giorni di navigazione, nella mattinata del 10 aprile, nel porto di Ravenna. Uomini adulti la maggior parte, ma anche quindi donne e 18 minori, di cui otto non accompagnati, provenienti da Bangladesh, Egitto, Eritrea, Ghana, Pakistan, Palestina e Siria. I migranti, informa un comunicato di Emergency, al momento del soccorso, cinque giorni fa, erano a bordo di due diverse imbarcazioni, precarie e allagate, in acque internazionali in zona Sar libica. Le due barche, sovraffollate, di 12 e 10 metri circa, partite da Sabratha e da Zawiya in Libia, erano state individuate tramite radar.
Il dolore di un viaggio spaventoso
Paesi diversi, motivazioni diverse, ma un unico ricordo, quello di un viaggio “spaventoso”, come descrive il racconto di un ragazzo siriano, confermato da un uomo del Bangladesh: entrambi descrivono la paura e la stanchezza. “Eravamo esausti – racconta il giovane - non sapevamo che cosa aspettarci. Dal fondo della barca aveva iniziato ad entrare acqua. Abbiamo tagliato alcune bottiglie a metà per usarle come recipienti per portare fuori l’acqua: siamo andati avanti per ore per far sì che non affondassimo”. Lui, partito dalla Siria nel 2016 per l’impossibilità di avere una vita, aveva trovato riparo in Libano da dove mandava i soldi ai genitori anziani rimasti in patria, guadagnati come fattorino di un ristorante. Oggi, che anche il Libano è un Paese in gravissima difficoltà economica, la speranza è diventata l’Europa “per costruire una nuova vita, e vivere in libertà”.
La violenza in Libia
Dolore e sacrificio anche nelle parole di chi, neanche trentenne, sette anni fa, si è trovato a emigrare dal Bangladesh verso la Libia per poter aiutare la madre vedova e malata. Un viaggio finito nelle prigioni delle milizie libiche, una detenzione fatta di ricatti e di spostamenti, di digiuni forzati e percosse per ottenere più soldi dalle famiglie. “Mia madre ha dovuto vendere la sua casa per permettermi di uscire da quel posto. Dopo che la mia famiglia ha pagato il riscatto, una notte alcuni uomini sono venuti a prendermi. Invece di liberarmi, hanno deciso di mettermi sulla barca e attraversare il Mediterraneo”. Ed ecco che, senza conoscerne neanche la ragione, ci si ritrova sulla spiaggia di Zawiya, minacciati di morte e costretti a salire su barche troppo piccole rispetto al numero di persone da trasportare. “Siamo saliti tutti. Non ho visto quasi nulla durante il tragitto perché ero nella stiva interna. L’odore di benzina era insopportabile e la posizione che ho dovuto tenere era dolorosissima”. L’unico pensiero, ora che anche lui è in salvo, è per la famiglia, da avvisare “per dire che sto bene e che on sono più in Libia”.
L'azione della Life Support
Sulla Life Support di Emergency, precisa il comunicato, opera un equipaggio di 29 persone tra marittimi, medici, mediatori e soccorritori. Quella di queste ultime ore è stata la sua diciottesima missione nel Mediterraneo Centrale. In totale ha portato in salvo 1.544 persone.
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