Camerun, 11 anni dopo Boko Haram. Fatna, Maimouna e Bossoni: tre donne, tre vittime
Augustine Asta – Maroua, regione dell’Estremo Nord, Camerun
In comune hanno il villaggio, Kolofata - nel nord del Camerun, al confine con la Nigeria, luogo ripetutamente attaccato da Boko Haram - e le atrocità subite da parte dell’organizzazione terroristica. È così che le vite di tre donne, completamente diverse tra loro, prendono una piega tragicamente simile.
"Come se la terra mi fosse caduta sulla testa"
È il 2013, Fatna (nome di fantasia) viene svegliata nel cuore della notte dal figlio ventiduenne che l’avvisa che qualcuno bussa alla porta di casa. Lei e il marito si alzano, mentre in casa irrompono i terroristi, che prendono il figlio e lo sgozzano davanti agli occhi dei genitori che assistono impotenti. Il padre fugge via, lei, Fatna, resta ad affrontare da sola gli assassini. "Sono rimasta lì a guardare mio figlio che giaceva in una pozza di sangue – ricorda tremante, con gli occhi che ancora oggi si riempiono di lacrime – sono rimasta lì a guardare il suo cadavere, il suo corpo senza vita. Quel giorno è stato come se la terra mi fosse caduta sulla testa. Il mio mondo è crollato davanti ai miei occhi e ciò che fa più male è che non ho potuto fare nulla. Non potevo fare nulla. Mio figlio è morto proprio davanti a me... Non volevo più vivere... Volevo morire anch'io..."
"Tutti scappavano dal villaggio"
Maimouna (nome di fantasia), giovane mamma di due figli, ha vissuto un altro orrore. I miliziani di Boko Haram fanno irruzione nel villaggio nel cuore della notte, prendono suo marito e gli tagliano la gola davanti ai suoi occhi. Lei fa ricorso alle poche forze rimastegli per fuggire. "Non so come io sia riuscita a scappare quel giorno – è il suo commosso racconto – è una data che non dimenticherò mai per il resto della mia vita. Quando hanno ucciso mio marito, ho iniziato a correre con i miei due figli, uno di 3 anni e l'altro di un anno. Ho corso più veloce che potevo. Tutti stavano scappando dal villaggio e noi correvamo nella boscaglia. Era la stagione delle piogge, fuggendo siamo arrivati in un punto in cui c'era un fiume che non si riusciva ad attraversare. Non appena l’acqua si è ritirata è iniziato il passaggio, assieme ad altre molte persone. Avevo due bambini, il più grande lo tenevo per mano, il più piccolo era sulla mia schiena, mi è stato strappato dalla corrente, aveva un anno. Ma ho continuato ad attraversare e sono arrivata sull’altra sponda del fiume. Ero esausta, non avevo più forze, pensando di essere al sicuro ho cercato un posticino per sdraiarmi con mio figlio di tre anni. Sono riuscita a chiudere gli occhi per un po', quando mi sono svegliata, al mattino presto, ho capito che anche l'unico bambino che ero riuscita a salvare era morto. In un giorno, quel giorno, ho perso tutti i membri della mia piccola famiglia”.
La testimonianza di un ex ostaggio
Bossoni (nome di fantasia) è stata ostaggio di Boko Haram. Ad appena 18 anni, la giovane donna è stata rapita, tenuta prigioniera, torturata e violentata dai terroristi, per quasi cinque anni. "Ero sola, in balia di questi barbari. Giorno e notte nelle mani loro. Volevo stare vicino ai miei genitori, ai miei fratelli, alle mie sorelle e anche ai miei amici. Ma sono stata tenuta prigioniera da uomini che mi hanno brutalmente strappato al calore della mia famiglia", racconta, lo sguardo cupo. "Mi sono ritrovata in un luogo totalmente sconosciuto e selvaggio. Sono stata violentata e picchiata. Mi hanno lasciata morire di fame. Sono stata maltrattata in modi che non si possono nemmeno immaginare. Un giorno, appena ne ho avuto la possibilità, sono scappata. Ho corso, senza sapere dove andare, sapevo solo che dovevo scappare. Ho corso per notti intere, lungo sentieri pericolosi, attraverso la foresta e la boscaglia, alla mercé degli animali selvatici e, soprattutto, di quegli uomini crudeli che mi inseguivano per catturarmi. Sapevo che dovevo scappare, perché se per disgrazia fossero riusciti a trovarmi, sarebbe stato per sottopormi ad altre atroci torture fino alla morte".
I racconti di Falta, Maimouna e Bossoni riassumono il trauma che continua ad opprimere le donne di questa parte del Camerun. Le loro storie sono tanto atroci quanto oltraggiose. I fatti sono di 11 anni fa, ma il dolore è ancora molto vivo. Al pari di queste tre donne, molte altre, dall’inizio di questa lunga crisi, hanno vissuto lo stesso dramma e tutte hanno perso una o più persone care. Da un giorno all'altro le loro vite sono precipitate dalla luce all'oscurità, con danni morali e traumi psicologici significativi.
La resilienza dei sopravvissuti
Al culmine della crisi, molte donne, vittime dell'estremismo violento in questa regione settentrionale del Camerun, hanno deciso di sfidare le avversità. Tante hanno scelto di organizzarsi in associazioni o piccoli gruppi per trovare la forza di sostenersi a vicenda. "Nella nostra associazione ‘Le cœur d'une mère’ ci aiutiamo molto – spiega Maimouna – ci sosteniamo a vicenda. Le nostre prove comuni ci incoraggiano a unirci per aiutare altri sopravvissuti. È più facile affrontare questa fase insieme, perché quando ci si trova faccia a faccia con qualcuno che ha vissuto la stessa cosa, ci si rende conto di non essere soli. E questo ti dà la forza di andare avanti”.
“Le lacrime si trasformano in armi”
"Da quando ci riuniamo nell'ambito delle attività della nostra associazione – interviene Bossoni – mi rendo conto che le nostre lacrime sono diventate un'arma. Ci sentiamo più forti per affrontare il futuro. Vogliamo vedere le cose in modo diverso, accettando quello che ci è successo". L'oceano della vita non è stato gentile con queste donne, che stanno gradualmente accettando la realtà che hanno vissuto e che stanno cercando di ritrovare il gusto della vita, lasciando la barca della disperazione, cercando di guarire le ferite del passato, per vivere un presente più ottimista. Una vita, la loro, che certamente non sarà più la stessa, ma che deve andare avanti, a forza di resistere.
Boko Haram
Boko Haram è apparso in Camerun il 19 febbraio 2013 con il rapimento della famiglia francese Moulin-Fournier a Dabanga, nell'estremo nord del Paese. A questo sono seguiti una serie di rapimenti prima della fase di attentati suicidi a Maroua e degli attacchi armati in alcune zone di conflitto nel 2014.
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