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Iran alle urne il 28 giugno per le elezioni presidenziali Iran alle urne il 28 giugno per le elezioni presidenziali

Iran al voto tra astensionismo, repressioni e posizionamento geopolitico

Domani, 28 giugno, gli elettori della Repubblica islamica sono chiamati a scegliere il presidente ad un mese dalla morte di Raisi. Sei in tutto i candidati. L’analista Giuseppe Scognamiglio: il problema cronico del Paese è l’astensionismo, ma qualunque sia l’esito è difficile immaginare repentini cambiamenti “nella gestione del dissenso”

di Roberto Paglialonga

Nel sistema istituzionale della Repubblica islamica dell’Iran — controllato da Guida suprema e ayatollah — solitamente non c’è molto spazio per i cambiamenti. Anche le votazioni del 28 giugno, anticipate di un anno a causa della scomparsa un mese fa del presidente, Ebrahim Raisi, e del ministro degli Esteri, Hossein Amirabdollahian, in un incidente con l’elicottero, non dovrebbero fare eccezione. Eppure qualche novità c’è.

Il rischio astensionismo

Anzitutto tra i sei candidati ammessi alla contesa — su 80 che si erano presentati — è stato dato il via libera anche a un esponente con posizioni più moderate. Si tratta di Masoud Pezeshkian, di origine azera, già ministro della Sanità con il “riformista” Mohammad Khatami, in disaccordo con il governo sulla questione dell’hijab obbligatorio e fautore dei negoziati per il programma nucleare iraniano (Jcpoa). «È davvero improbabile che possa vincere, ma se già arrivasse al ballottaggio sarebbe un buon risultato e chissà forse che a quel punto una qualche chance non possa anche averla, magari compattando il voto di giovani e donne», dice parlando con «L’Osservatore Romano» Giuseppe Scognamiglio, diplomatico di carriera, fondatore e ceo del think tank “Eastwest European Institute”. Il problema cronico dell’Iran è l’astensionismo, o più che altro una sorta di rifiuto del voto. Difatti alle ultime elezioni del 2021 è andato a votare appena il 48%. Il paradosso è che chi le contesta invita a boicottarle, ma solo andando alle urne un candidato più riformista avrebbe qualche possibilità; mentre chi ha interesse a pilotarle verso un approdo gradito spinge alla partecipazione per legittimare il proprio potere e — ha dichiarato la Guida suprema, Ali Khamenei — «mettere a tacere i nemici».

I candidati

Non sarà facile, se è vero «che per scongiurare l’ipotesi di un cambiamento i vari candidati più conservatori stanno pensando di convergere su un solo nome, come ha detto qualche giorno fa il segretario del Consiglio di giustizia, Mohsen Rezai». Ben saldi nel campo “della destra”, per quanto con sfumature diverse, ci sono i due principali contendenti: Mohammad Bagher Ghalibaf, dato per favorito, perché la sua elezione sarebbe in sostanziale continuità con il predecessore Raisi (ma a suo svantaggio giocano alcune accuse di corruzione), oggi presidente del Parlamento ed ex comandante dei pasdaran nella guerra Iran-Iraq (1980-1988), considerato un conservatore pragmatico; e Saeed Jalili, il più oltranzista, ex segretario del Consiglio supremo di sicurezza. Poi c’è Mostafa Pourmohammadi, unico religioso, ex ministro della Giustizia con Mahmud Ahmadinejad. Si sono invece ritirati dalla competizione Alireza Zakani, molto critico verso i negoziati con l’occidente sul nucleare, e a capo della campagna di repressione per l’imposizione dell’hijab alle donne, e Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi, presidente della Fondazione per gli affari dei martiri e dei veterani, sotto sanzioni per aver indirizzato risorse finanziarie verso organizzazioni come Hezbollah. «Qualunque sia l’esito è però difficile pensare a repentini cambi in politica interna: forse solo con Pezeshkian potrebbe esserci un ammorbidimento nella gestione delle repressioni e del dissenso», spiega Scognamiglio. Lo stesso può dirsi per l’economia, che ha bisogno di una scossa «perché soffre di una crisi endemica ed è certamente messa in difficoltà dalla chiusura con l’occidente e dalle sanzioni».

Il programma nucleare

A livello internazionale, invece, continuerà a rimanere sullo sfondo il tema del programma sul nucleare, «accordo abbandonato dagli Usa nel 2018 senza una strategia giustificabile, se non con la periodica ritirata dallo scacchiere globale da parte di Washington. Ora quell’accordo è difficilmente riattivabile: e, anche qui, solo Pezeshkian ha già manifestato un interesse in questo senso. Poi molto dipenderà anche da ciò che succederà con le elezioni a Washington. Di certo il rischio è che con la Casa Bianca il rapporto continui a rimanere bloccato, qualora a Teheran trionfassero gli ultra-conservatori». Un’eventualità che, in uno scenario simile, si verificherebbe anche rispetto alla collocazione geopolitica del Paese: «Ci sarebbe un tentativo di intensificare i rapporti con Russia, Cina, India per creare una sorta di terzo polo in alternativa soprattutto agli Usa; e quanto al Medio Oriente continuerebbe il supporto filo-palestinese contro Israele, in competizione con altri grandi player che stanno cercando di giocare un ruolo in quel conflitto. Ed è, questa, una tipica situazione che accade quando gli Usa “si ritirano” dalle proprie responsabilità, lasciando che quello spazio sia occupato da altri».

Il rischio della guerra

Tutto questo, infine, non può che portare a un surriscaldamento della tensione generale, come sta avvenendo con Hezbollah: «Se l’Iran ha tutto l’interesse che la miccia non esploda, purtroppo si arriva a livelli tali per cui basta davvero poco per trovarsi in una guerra più estesa». Anche il fatto che «il protagonismo arabo-saudita non riesca a trovare uno sbocco (possibilità che si intravedeva con i cosiddetti “accordi di Abramo”), almeno per il momento, dà una chance a Teheran di trovare una sua ragion d’essere per imporsi nell’area», conclude il fondatore di Eastwest.

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27 giugno 2024, 15:30