"E vedremo cose meravigliose", un libro sulla passione dell'educare
Adriana Masotti - Città del Vaticano
"E vedremo cose meravigliose" è il titolo promettente del libro scritto a quattro mani e pubblicato dall'editrice Paoline, in cui Johnny Dotti e Mario Aldegani propongono idee, esperienze e provocazioni per riportare l’educazione alla sua funzione principale: far crescere nella libertà. Il primo autore è pedagogista e docente di Scienze politiche alla facoltà di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il secondo è un sacerdote della Congregazione dei Giuseppini del Murialdo, insegnante ed educatore. Insieme hanno dato vita nel 2012 alla onlus Fondazione Talenti.
L'educazione non è sinonimo di formazione e apprendimento
Il testo che porta come sottotitolo "Riflessioni controcorrente sull’educare oggi" parte da un presupposto dichiarato: l’educazione è in crisi e lo è perché la crescita s’identifica per lo più con lo sviluppo tecno-scientifico e il sapere si confonde con la specializzazione. "Oggi – leggiamo nell’introduzione - nell’educazione lo smarrimento è totale. Pare di essere di fronte a un’impossibilità vera e propria, e ciò produce due reazioni: da una parte, una sorta di indifferenza e di fatalismo e, dall’altra, un pessimismo inconsolabile che sbocca nella conclusione che tutto è inutile". A dispetto di un contesto difficile, strade per riportare l’educazione alla sua funzione principale - che è mettere al centro il mistero della persona -, secondo gli autori ce ne sono ancora. Le idee, le esperienze e le provocazioni presentate in queste pagine si sviluppano attraverso dieci azioni espresse con verbi all’infinito e vogliono essere un invito a domandarsi quali suggestioni di trasformazione concreta essi possano offrire.
Johnny Dotti: la scuola oggi è lontana dall'educare
Quello che i due autori ci vogliono mostrare è che "se sapremo perseverare nello stupore e nella fiducia, vedremo cose meravigliose". Ai media vaticani, il professor Johnny Dotti approfondisce l'essenza dell'educazione e invita a guardare con fiducia i giovani che chiedono a genitori e insegnanti di essere ascoltati e accompagnati, ma anche "lasciati andare" per poter crescere nella libertà e nella responsabilità, per diventare "autori della propria vita":
Don Milani e “andavamo a scuola a piedi”: al primo, sacerdote, insegnante, educatore e molto altro è dedicato il libro; la seconda frase ricorda tutto un insieme di comportamenti e di valori che sono molto cambiati. Nell’introduzione si legge però che l’intento non è ricordare il passato. Ci spiega che cosa significa per voi autori questi due riferimenti?
Sono un riferimento entrambi non solo di gratitudine intellettuale, ma di significato dell'educare. Il primo, don Milani, credo che simboleggi bene cosa sia l'educare, cioè il custodire il mistero del figlio dentro di sé nel portarlo al mondo. Io sintetizzo sempre così l'educare: non è formare, addestrare, istruire, nemmeno apprendere, tantomeno informare. È esattamente questa attitudine interiore a portare dentro di sé l'altro che si intuisce sia proprio figlio. Don Milani secondo me rappresenta bene questo educatore per vocazione, che è quello che manca oggi. L'espressione "andare a scuola a piedi" è in qualche modo il recupero dell'educare integrale, che non è solo legata all'intelletto ma è un'esperienza del corpo. L'educare ha a che fare col desiderio e studiare ha a che fare col desiderare, non soltanto con un'applicazione mnemonica rispetto ai testi, e "andare a scuola a piedi" rappresenta esattamente questo desiderio dello studiare attraverso il corpo.
Educazione e libertà sono, secondo la tesi del libro, realtà strettamente connesse. Ma voi dite che oggi questo legame non funziona, che la scuola, ad esempio, non aiuta nel metterle insieme. "La scuola - si legge - è l'istituzione più lontana dell'educazione" e quindi probabilmente dal rendere i ragazzi liberi. Perché?
Perché oggi vale ciò che funziona tanto è vero che la libertà oggi in Occidente viene interpretata come libertà di scegliere tra tante cose, mentre la libertà è legata all'educare e, appunto, è l'accompagnare al venire al mondo ciò che siamo, ciò che siamo chiamati ad essere. È rendersi conto della mancanza d'essere che siamo e aiutare via via a compiere la nostra vocazione nel mondo. Questa è la libertà. È evidente che questo ha bisogno di appoggiarsi sul valore del senso della vita non sul funzionamento. Se si ha in mente il funzionamento, si ha in mente l'intelligenza computazionale, la specializzazione, l'istruzione, si hanno in mente altre cose non questo.
"La nostra personale speranza è che questo libro possa contribuire a riaccendere l'entusiasmo, la ricerca, l'orgoglio, la passione di educare", voi scrivete, ma come è possibile riaccendere la passione dell'educare?
Io credo che se qualcuno dà ancora qualche peso alla speranza, di cui siamo tutti orfani, l'educazione riprenderà spazio, perché educare e sperare sono sostanzialmente la stessa cosa. L'educazione non è nient'altro che la pedagogia della speranza, cioè l'immaginare che attraverso di me qualcun altro possa essere accompagnato a venire al mondo.
Entriamo un po' nel contenuto del libro che offre riflessioni su dieci azioni che forse potrebbero aiutare nell'impegno educativo. La prima è ascoltare, poi benedire, custodire, condividere, generare, lasciar andare, pensare, raccontare, emancipare e imparare. Quale di queste azioni manca di più oggi nei confronti dei ragazzi?
Lasciar andare, decisamente: lasciar andare! Perché il lasciar andare é un simbolo di fiducia. Bisogna avere una profonda fiducia nei figli, negli altri, nelle persone che ci sono affidate. Questo è il segno dell'autorità che è autorizzare, rendere l'altro "autore" e che quindi è disponibile sin dall'inizio a lasciarlo andare, a prendersene cura aiutandolo a venire al mondo proprio perché rispetta la sua libertà. Oggi questo non c'è nelle relazioni familiari, non c'è nelle relazioni istituzionali, non c'è perché i ragazzini escono di casa tardissimo - a 35 anni circa - non fanno figli, non si sposano, non assumono responsabilità. Ma non è una loro colpa, è proprio la forma della nostra società che tende a essere fondata sulla sicurezza e sulla certezza sempre presunte e sempre progettate prima, che non permette il lasciar andare, cioè non gode della libertà dell'altro.
La scuola che è già messa alla prova dalla pesante presenza dei social nella vita dei giovani, si troverà sempre più costretta a fare i conti con lo sviluppo dell'Intelligenza Artificiale. In che modo? Con quale atteggiamento gli insegnanti possono affrontare tutte queste trasformazioni?
L'Intelligenza Artificiale non è che una delle tante intelligenze accanto a quella riflessiva, contemplativa, estetica, meditativa, emotiva. Mi sembra che ci sia un accanimento eccessivo sull'IA. Si può affrontare innanzitutto sviluppando anche altri tipi di intelligenza, poi ricordandosi che noi siamo intelligenza, spirito e corpo e la scuola non si deve dimenticare di questo: noi siamo anche corpo e siamo anche spirito, che non è solo intelligenza. Tra l'altro, appunto, l'Intelligenza Artificiale non è che un sottoinsieme abbastanza banale perché si fonda sull'algoritmo, quindi sostanzialmente sul pensiero binario gnostico, manicheo, zero-uno, bene-male, bianco-rosso, destra-sinistra. Insomma, non dimenticandosi che l'uomo è un po' di più dell'intelligenza analitica.
Riguardo al pensare, lei dice che oggi si tende a negare il pensiero e che essere istruiti non significa essere pensanti. Lei ne ha già accennato, ma mi sembra che questo sia il fulcro di tutto...
Eh sì, è così, se si guarda dal punto di vista dell'intelligenza il tema è il pensiero. Che cosa vuol dire pensare e sviluppare un pensiero critico? Non è semplicemente sviluppare un pensiero specialistico, ma è avere un pensiero che sa connettere, che sa mettere insieme il frammento con le diverse dimensioni della realtà. Però per fare questo, il pensiero ha bisogno di essere esperito, di fare esperienza, e a scuola non si fa nessun tipo di esperienza, tantomeno di pensiero. Ad esempio, la domanda è molto più importante della risposta, ma non si educa per nulla né ad ascoltare le domande, né a saperle fare.
Papa Francesco dice spesso che l'educazione deve sviluppare la testa, il cuore e le mani...
È l'antropologia tripartita: mente-corpo-spirito. Questa è l'antropologia cristiana: noi "siamo" corpo, non "abbiamo" un corpo. Noi siamo spirito, non abbiamo uno spirito. Noi siamo intelletto, non abbiamo un intelletto. Per questo il senso viene prima del funzionamento, altrimenti siamo semplicemente macchine e allora è meglio avere le macchine che l'uomo. La macchina funziona meglio dell'uomo, un uomo non funziona quasi mai altrettanto bene. Le cose più importanti della vita non funzionano così, mai, però quello è il senso della nostra vita.
Prendiamo in considerazione ancora due elementi: la comunità e la condivisione. Qual è la visione che c'è dietro a questi due aspetti?
È la visione classica personalista che dice che noi non siamo individui, siamo persone. L'educazione non si può declinare dal punto di vista individuale perché l'educazione è radicalmente una relazione. Io ho citato prima la relazione padre-figlio, potrei dire madre-figlia ecc... Tutte le dimensioni che concorrono ai codici dell'educazione sono dimensioni di condivisione esistenziale e soprattutto di comunità intesa come munus condiviso cioè come regalo e obbligazione morale condivisa. La concentrazione e l'attenzione sono il più grande segno d'amore e non c'è educazione senza concentrazione e senza attenzione che vuol dire uscire dal proprio io. Nel libro si parla di comunità educante. A scuola non esiste la comunità educante, se si assiste a un incontro tra genitori e insegnanti o ad un Consiglio di classe o un Consiglio di Istituto, beh, si vedrà che lì abbiamo lo scontro dei diritti individuali che sono un gran problema. L'educazione ha bisogno di diritti personali, cioè di rapporto tra pronomi personali: non c'è io senza tu, non c'è tu senza egli, non c'è egli senza noi, non c'è noi senza voi, non c'è voi senza loro. Questa è la questione della comunità. Così torniamo all'inizio. Perché non si va più a scuola a piedi? Perché nessuno si fida più degli altri e ci si immagina tutti individui, atomi, che vanno a prendere un servizio erogato da un'istituzione per conto di sé. E questo proprio non va bene, infatti i risultati si vedono. La scuola di don Milani era una scuola comunitaria, era una scuola dove tutti apprendevano e insegnavano. Era una scuola fondata sull'esperienza, una scuola che teneva conto del corpo, dello spirito e dell'intelletto. Ricordo che i ragazzi di don Milani andavano all'estero a 12, 13 anni e che aggiustavano la strada che saliva alla scuola e mettevano a posto la biblioteca. E soprattutto stavano a scuola 14 ore, compreso il sabato e la domenica.
Sicuramente un insegnante, leggendo il vostro libro, può sentirsi ispirato a qualche cambiamento, ma che cosa può fare un solo insegnante in un istituto, in un sistema? Ha la possibilità di cambiare qualcosa?
Certo che è possibile, con la propria fragilità e debolezza può cominciare a mettersi con altri per far nascere piccole cose. Dalle piccole cose nascono le esperienze che diventano esperienze istituenti che cambiano le istituzioni. Questo è il percorso del senso: se si ha in mente l'idea domanda/risposta, oppure funziona/non funziona, allora non succederà mai niente. Cioè verremo dominati dalle macchine che è quel che sta succedendo di fatto in Occidente. Le cose più importanti della mia vita, non le ho imparate né all'università, né ai master, né facendo il professore, le ho imparate da mia nonna che aveva fatto la terza elementare.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui