Pianosa, un’isola che rinasce grazie ai detenuti
Roberta Barbi - Città del Vaticano
In questo piccolo angolo di paradiso c’è un detto: “Quello che accade a Pianosa, rimane a Pianosa”. Da qualche anno, però, non è più così, perché se si ha avuto la fortuna di essere tra le 300 persone - gli accessi sono contingentati - che quotidianamente possono sbarcare su quest’isola, l’esperienza naturalistica, storico-culturale ma anche sociale vissute sono tali che è doveroso raccontarle. Soprattutto da quando ad accogliere i turisti all’albergo Milena o al bar-ristorante Brunello - gli unici presenti sull’isola - sono i detenuti della sezione distaccata della casa di reclusione di Porta Azzurro all’Elba che a Pianosa vivono e lavorano, unici abitanti assieme al personale della polizia penitenziaria, e unici esseri umani ad avere libertà di movimento.
Una storia iniziata nel 1800
La storia del carcere di Pianosa inizia nel 1858, quando su questa sperduta isola nel mezzo del Mar Tirreno viene creata una colonia penale agricola che fornisce prodotti naturali e zootecnici anche di trasformazione, tanto che viene aperto un caseificio e un allevamento di polli, poi viene costruito il primo edificio penitenziario per ospitare i 350 detenuti dediti alle colture. In realtà il posto ha già una vocazione per così dire carceraria, perché all’epoca della Roma imperiale era stato il luogo eletto per l’esilio di Postumio Agrippa, nipote di Augusto, al quale il successivo istituto penitenziario sarà intitolato. Alla fine dell’800 l’isola diventa un sanatorio per i ristretti affetti da tubercolosi e bisogna arrivare fino agli anni Settanta del ventesimo secolo per la costruzione del carcere di massima sicurezza dove verranno portati mafiosi e brigatisti e dove s’instaurerà un’importante sezione del regime del 41 bis - il cosiddetto carcere duro - dopo l’istituzione dello stesso e gli attentati di mafia ai giudici Falcone e Borsellino. Nel 1996, infine, la chiusura: l’ultimo detenuto lascia l’isola per essere trasferito “in continente” e contemporaneamente viene istituito l’ente Parco nazionale dell’arcipelago toscano.
Bisogna aspettare il 2024 perché il braccio Agrippa dell’istituto di pena venga ristrutturato e aperto al pubblico, cosa che è avvenuta nel giugno scorso grazie a uno stretto lavoro di sinergia tra il Parco, l’Agenzia del Demanio e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria: “Siamo tutti parte dello Stato, fare rete è importantissimo quanto naturale – dichiara ai media vaticani Giampiero Sammuri, presidente del Parco nazionale dell’arcipelago toscano – le nostre guide si occupano essenzialmente della custodia del delicato ecosistema dell’isola, ma non solo, sono formate a livello storico e culturale e queste ultime proposte di visita guidata lo hanno dimostrato. La prima stagione è stata un record di presenze, circa seimila, per parecchi giorni di fila abbiamo registrato il tutto esaurito”.
Parola d’ordine: reinserimento al lavoro
Nella sezione distaccata a Pianosa della casa di reclusione di Porto Azzurro, vivono 21 detenuti tutti in articolo 21, cioè con il beneficio del permesso di lavoro esterno. Tra le tante cose originali che si sono trovati a fare sull’isola, c’è stata anche la guardia ai nidi di tartarughe: “Si tratta di un modello innovativo di esecuzione penale, che è soprattutto dedicato all’agricoltura ma non solo - racconta Martina Carducci, direttrice della casa di reclusione di Porto Azzurro - il nostro istituto di pena predilige in modo particolare, fra le attività trattamentali, quelle finalizzate al reinserimento lavorativo dei ristretti”, i quali qui, buona parte dell’anno, devono rapportarsi con professionisti e avere contatti con il pubblico: “Questo ha un effetto benefico sul loro percorso riabilitativo – prosegue la direttrice - e ha un effetto benefico sull’isola perché la curano e la valorizzano”.
Un progetto inclusivo molto articolato
Dall’agricoltura sostenibile alla manutenzione degli spazi, il progetto d’inclusione sociale che coinvolge Pianosa è molto articolato e si fonda sull’occupazione del personale detenuto e sul circuito dell’economia carceraria. Ne è un esempio luminoso la cooperativa Arnera, originaria della provincia di Pisa, che gestisce le uniche due strutture ricettive dell’isola: l’albergo Milena e il bar-ristorante Brunello: nel primo i ristretti vengono impiegati in attività di pulizia come rifare le camere, nel secondo lavorano come baristi, aiuto cuochi, camerieri e addetti al lavaggio: “In genere non sono formati - è la testimonianza di Marco Cioni, coordinatore della cooperativa sociale Arnera - ma fanno presto a imparare perché sono ricettivi. Per loro stare a Pianosa è un privilegio perché hanno libertà di movimento, possibilità di formarsi e rapportarsi con l’esterno, guadagnano e così possono mandare a casa qualcosa rimediando almeno in parte alla loro assenza, e hanno accesso al cellulare quindi possono mantenere i contatti con i loro affetti”. Oltre ad Arnera, sull’isola lavorano anche la cooperativa Don Bosco e Linc, organizzazione elbana che lavora per l’empowerment di comunità in tutta la provincia livornese. “Il reinserimento sociale deve stare a cuore di tutte le cooperative perché se si trascura questa fase spesso si rovina tutto il lavoro fatto - aggiunge Cioni - ai miei operatori spiego sempre che devono considerare i detenuti solo per la parentesi che stanno vivendo, senza indagare il loro passato o il loro futuro, perché l’uomo non è il reato che ha commesso”. Tra le difficoltà, ovviamente, la più ardua è scardinare la mentalità carceraria che i ristretti si portano dietro: “Pensare che ci si possa salvare da soli, non fidarsi degli altri, relazioni solo di tipo strumentale: spesso abbiamo a che fare non solo con le persone, ma con tutti i loro atteggiamenti di difesa”, conclude il coordinatore di Arnera.
Pianosa e i suoi abitanti nell’arte
“Border light” è la mostra del fotografo elbano Roberto Ridi che racconta Pianosa attraverso la sua natura, i suoi spazi e non luoghi, ma soprattutto attraverso i volti dei suoi abitanti che, come abbiamo detto, sono i detenuti e il personale penitenziario: “Non era la prima volta che lavoravo con loro, fanno fatica a fidarsi, ma un bravo fotografo deve instaurare un contatto con la persona che ritrae - riferisce a Roberto Ridi - ci vuole molto rispetto per riuscire a comunicare quello che le persone hanno dentro, le loro vite”. Per realizzare questi scatti, per i quali ha scelto il bianco e nero, il fotografo ha vissuto con la popolazione carceraria e con gli agenti, approfondendo il rapporto che ognuno di loro stabiliva con la natura, un elemento da cui a Pianosa non si può prescindere: “Qui natura e carcere sono un tutt’uno, io ho cercato di raccontarlo senza interferire con la vita dell’isola e concentrandomi sulla chiave di lettura del reinserimento al lavoro che è fondamentale”. La mostra, esposta per un paio di mesi a Pianosa, fino al 13 ottobre sarà visibile nella Sala della Gran Guardia presso il Comune di Portoferraio all’isola d’Elba, prima di essere portata altrove. Grazie alla Fondazione Acqua dell’Elba ne è stata ricavata anche una pubblicazione a tiratura limitata: 300 copie firmate disponibili in libreria.
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