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Il presidente della Banca mondiale Ajay Banga Il presidente della Banca mondiale Ajay Banga

La Banca mondiale e la sfida del sostegno ai Paesi fragili

Il presidente di World Bank Group, Ajay Banga, spiega ai media vaticani l’azione di contrasto alla povertà da parte dell’Istituzione finanziaria. Attenzione puntata sull’Africa, in difficoltà dal punto di vista alimentare e sanitario, ma «ci siamo impegnati a raggiungere 1,5 miliardi di persone nel mondo entro il 2030» e una grande parte riguarda proprio quel continente

Valerio Palombaro – Città del Vaticano

Ajay Banga, dirigente d’azienda indiano naturalizzato statunitense, da 17 mesi è presidente della Banca mondiale (World Bank Group), l’istituzione finanziaria nata dopo gli accordi di Bretton Woods nel 1945 con l’obiettivo di contrastare la povertà e organizzare aiuti agli Stati in via di sviluppo. In un’intervista ai media vaticani, prima della sua visita a Roma in questi giorni, il presidente Banga illustra il lavoro dell’istituzione con sede a Washington per essere una Banca “migliore” e “più veloce” in uno scenario internazionale complesso e in mutamento.

«Una delle prime cose che abbiamo fatto — afferma Banga — è stato espandere la visione della Banca mondiale per considerare le sfide interconnesse legate a fragilità diffuse, conflitti, violenze, pandemia e cambiamento climatico, al fine di realizzare che tutto questo pone delle sfide negli sforzi al contrasto alla povertà». La Banca mondiale, secondo il presidente, sta pertanto procedendo con un abbattimento dei tempi per l’approvazione dei progetti finanziati nei Paesi più poveri: «Dai 19 mesi di media siamo passati a 16 mesi e ora guardiamo all’obiettivo di raggiungere i 12 per la metà del 2025. In alcuni casi siamo già molto al di sotto: recentemente abbiamo approvato cinque progetti sanitari in altrettanti Paesi africani in meno di 100 giorni e un altro simile nelle isole del Pacifico in meno di 10 mesi». Ma non è solo una questione di velocità. «Stiamo facendo progressi per lavorare meglio all’interno dell’istituzione, tra le diverse componenti della Banca, e con i nostri partner», sottolinea il presidente, secondo cui la Banca mondiale lavora oggi in stretto coordinamento con le banche multilaterali di sviluppo, come la Banca interamericana di sviluppo, la Banca di sviluppo asiatica e la Banca africana di sviluppo.

La Banca mondiale ha da poco concluso, a fine ottobre, la sua riunione annuale a Washington e una delle priorità emerse è quella della creazione di posti di lavoro per i giovani nei Paesi in via di sviluppo. «Ci sono 1,2 miliardi di giovani che vivono nei mercati emergenti che si affacceranno al mondo del lavoro nei prossimi 10/15 anni e, al contempo, questi stessi Paesi sono sul percorso per creare solo 420 milioni di posti di lavoro per cui c’è un grande vuoto: 800 milioni di giovani — sottolinea Banga — che rimarrebbero fuori. Ma le previsioni non sono un destino segnato. Bisogna prendersi cura dei giovani lungo il loro percorso e assicurare loro dignità, speranza e la prospettiva di un lavoro» nell’ambito della sfida complessiva di «sradicare la povertà su un pianeta abitabile».

«La Banca mondiale — insiste il presidente — è un’istituzione che ha tutte le carte in regola per rendere possibile la creazione di posti di lavoro». E ciò è fattibile tramite una combinazione di leve pubbliche e private a disposizione della Banca in settori decisivi come istruzioni, sanità e infrastrutture. «Finanziamo ogni anno tra i 60 e gli 80 miliardi di dollari di progetti, tutti nei Paesi emergenti», dichiara Banga, spiegando che la Banca mondiale lavora anche oltre gli aspetti prettamente finanziari. «Condivide le best practices e le storie di successo su come realizzare i progetti nei Paesi in via di sviluppo. E per questo abbiamo creato la World Bank Group Knowledge Academies per i funzionari e i politici dei Paesi interessati ai progetti in modo da poter apprendere le best practices dagli altri Paesi. In questo modo i governi possono attuare politiche favorevoli per le piccole imprese, ad esempio in campo agricolo, senza incorrere nei rischi di un sistema di regolamentazione incerto. Tra il 70 e l’80 per cento dei posti di lavoro in ogni Paese, incluse l’Italia, gli Stati Uniti, la Cina e l’India, sono creati dalle piccole e medie imprese, e non sono generati dal settore pubblico ma da quello privato».

Nell’intervista il presidente della Banca mondiale evidenzia poi l’attenzione sull’Africa, in particolare su cinque settori cruciali per la creazione di posti di lavoro: infrastrutture, agricoltura, sanità, turismo e manifatturiero. «L’Africa è in difficoltà dal punto di vista alimentare, ma ha la terra e l’acqua, mentre manca l’irrigazione e la logistica. Se produci cibo in Uganda e lo vuoi portare in Angola, ad esempio, devi spedirlo su una nave diretta in Cina per poi riportarlo indietro, aggirando Capo di Buona Speranza perché non ci sono strade e ferrovie». Un altro elemento essenziale per lo sviluppo dell’Africa è l’elettricità: «Senza elettricità — osserva Banga — non si può fare nulla. Circa 600 milioni di persone in Africa non hanno accesso all’energia elettrica. Ci siamo impegnati con i partner della Banca di sviluppo africana e con organizzazioni come la Rockefeller Foundation per dare elettricità a 300 milioni di persone entro il 2030». Mentre per quanto riguarda l’assistenza sanitaria di base «ci siamo impegnati a raggiungere 1,5 miliardi di persone nel mondo entro il 2030» e una grande parte riguarda proprio l’Africa. Particolare attenzione la Banca mondiale la dedica anche all’agricoltura. «Abbiamo appena preso l’impegno, nella nostra recente riunione annuale, di raddoppiare il finanziamento per l’imprenditoria agricola a 9 miliardi di dollari l’anno in modo da aiutare i piccoli agricoltori a svilupparsi e a connettersi ai mercati agricoli».

Il presidente Banga sottolinea poi che i 78 Paesi più poveri al mondo spenderanno quest’anno circa la metà delle loro entrate nei servizi legati al debito, più di quanto spendono in sanità, istruzione e infrastrutture. «Lavoriamo con il Fondo monetario internazionale in quella che è chiamata Tavola rotonda sul debito sovrano globale. Il grande cambiamento avvenuto negli ultimi 20 anni — afferma — è che il debito dei Paesi emergenti non viene contratto solo con i Paesi occidentali, ma anche con altri Stati a livello bilaterale, come Cina e India, e con molti finanziatori commerciali. Per questo al G20 abbiamo creato una cornice comune per affrontare insieme la questione del debito. Quattro Paesi dell’Africa — Ciad, Etiopia Ghana e Zambia — hanno concordato di andare avanti, attraverso questa tavola rotonda, così da cercare di trovare un modo per ridurre il loro peso debitorio. Lo Zambia e il Ghana hanno più o meno completato la ristrutturazione del debito; l’Etiopia lo sta facendo mentre il Ciad è un po’ indietro. C’è ancora molto da fare per accelerare questo processo».

La Banca mondiale è stata l’unica istituzione che ha dato soldi a questi quattro Paesi africani da quando hanno aderito alla cornice del G20. «Abbiamo dato loro 16 miliardi di dollari negli ultimi quattro anni, circa metà del tutto come donazione, senza pagamenti e senza interessi». Ma l’attenzione della Banca mondiale, con il Fondo monetario internazionale, è rivolta agli Stati che hanno problemi temporanei di liquidità perché il tasso di interesse con cui il loro debito si sta rivalutando è molto alto e in generale ai Paesi più poveri.

Una leva utilizzata in questi casi è quella degli aiuti erogati dall’Agenzia internazionale per lo sviluppo (International Development Association, Ida), ente della Banca mondiale che concede sovvenzioni o prestiti a tasso d’interesse prossimo allo zero in cambio di riforme concordate. «Ci sono attualmente 78 Paesi — spiega — che ricevono soldi dall’Ida. Si tratta di finanziamenti molto convenienti. Inoltre, ai Paesi beneficiari offriamo la nostra esperienza: ad esempio possiamo già condividere le best practices sulle infrastrutture digitali pubbliche raccolte in India in almeno 20 altri Paesi. Il terzo elemento è quello finanziario, perché come istituzione abbiamo un rating tripla A. Possiamo prendere ogni dollaro che ci viene dato dai nostri donatori e moltiplicarlo attraverso il mercato obbligazionario privato raccogliendo obbligazioni a un prezzo molto ragionevole per un importo compreso tra 3,5 e 4 dollari per ogni dollaro. Quindi significa davvero che se raccogliamo 20 miliardi dai donatori, saremo in grado di convertirli in 80-100 miliardi di prestiti in tre anni».

Nel corso degli anni ben 35 Paesi sono passati dall’essere beneficiari dei finanziamenti dell’Ida all’essere grandi donatori. «Le persone — conclude Banga — dimenticano che la Corea del Sud è stata beneficiaria degli aiuti Ida, così come Cina, India e Turchia. Queste sono storie di successo che testimoniano come questi aiuti siano il miglior investimento nello sviluppo».

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07 novembre 2024, 15:42