Dipo Faloyin: l'Africa non è un Paese che l'Occidente deve "sistemare"
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Ce n'era bisogno? Sì, ce n'era bisogno, nostro malgrado. Era necessario ribadire che l'Africa non è un monolite. Ancora troppa superficialità regna infatti nel considerare un continente prismatico; si preferisce restare su un piano di genericità, risultato di un colonialismo la cui matrice ancora resiste. Così il libro "L'africa non è un Paese", di Dipo Faloyin (Altrecose, 2024) - se ne parlerà in un confronto alla Fiera Più libri, più liberi a Roma domani, 7 dicembre, con la giornalista Francesca Mannocchi - restituisce dignità alle differenze sociali, culturali e politiche dei vari Stati attraverso il racconto di storie che vanno dalla vita urbana di Lagos, sua città natale, a chi cucina il miglior riso jollof.
Raccontare l'Africa senza stereotipi
Tentativi di questo tipo sono già circolati in passato, come per esempio Africana: raccontare il continente al di là degli stereotipi (2021), dove le curatrici Igiaba Scego e Chiara Piaggio evidenziavano come la riduzione a un’identità tutto sommato omogenea del continente nascondesse in realtà secoli di razzismo interiorizzato e continuamente ribadito dall’incuria (o nella mistificazione) con la quale ci si approccia all’Africa nel discorso pubblico. Il luogo comune nasce con l'emergere delle potenze coloniali che volevano impadronirsi dell'Africa, spiega ai media vaticani Faloyin, giornalista britannico di origine nigeriana. Lo fecero di fatto nel 1884, con la Conferenza di Berlino che sanciva la spartizione dell'Africa, interamente assoggettata dagli Stati europei, con l'unica eccezione dell'Etiopia. Fu quella la circostanza ufficiale, secondo il giornalista, in cui si stabilirono molti dei miti che oggi conosciamo sull'Africa. Di fatto, afferma l'autore, "si è giustificato il fatto di andare lì e rubare la terra per sé. E fu allora che iniziarono a dire alla gente che gli africani erano dei selvaggi, persone incivili e che non sapevano badare a sé stessi. E così sono nati molti di questi miti senza che nessuno potesse sfatarli, per decenni. Sopravvivevano nel modo in cui i film e i programmi televisivi ritraevano l'Africa, e soprattutto nel modo in cui le campagne di beneficenza ritraevano l'Africa".
I danni e le miopie del colonialismo
Faloyin si è invece sempre appassionato nell’illuminare l’altra faccia della realtà: "Ho sempre avuto la sensazione che non ci avessero mai dato lo spazio necessario per raccontare le nostre storie, ma che altri si fossero in qualche modo affrettati a farlo per noi, al nostro posto. Ecco perché ho voluto scrivere questo libro. Le storie su cui mi concentro sono in gran parte le storie di come sono stati creati questi Paesi africani e del processo con cui queste comunità sono state riunite non tenendo per nulla conto dei nostri raggruppamenti naturali; così si sono delineati Paesi dalla vastissima superficie con il maggior numero possibile di etnie e lingue diverse al loro interno. Qualcosa di incredibilmente dirompente". La narrazione esterna sull’Africa ha insomma diffuso e reiterato questi stereotipi. Vero è che, dopo l'indipendenza, "molte delle persone rimaste al potere erano quelle che lo avevano ricevuto dagli imperi coloniali, che avevano una mentalità molto simile a quella dei colonialisti". E, in molti casi, osserva Dipo, hanno avuto troppo controllo su questi Paesi.
Aiutare i popoli in sofferenza liberando le loro energie
Che l’Africa, pur con le sue distinzioni, conservi molte sacche di povertà e sofferenza pone seri problemi su come aiutare le popolazioni nel modo più appropriato: "Si può aiutare se si dispone di una competenza molto specifica che può servire in una situazione molto specifica", dice Faloyin. Non servono gli aiuti a pioggia, ma quelli che hanno effettivamente un impatto su coloro che vivono in un determinato luogo. Anche questa sembra una ovvietà, eppure, precisa ancora lo scrittore, "non devono essere aiuti che producono una mera sensazione generale" di autocompiacimento. La questione è che "molte persone in Occidente pensano di poter semplicemente arrivare un giorno senza alcun tipo di storia o esperienza pregressa nel gestire le crisi". L'Africa anonima, l'Africa nell'indigenza, l'Africa che tuttavia fa gola per ciò che c'è sotto. La corruzione endemica si sposa spesse volte con gli appetiti esteri, tanto che l'espressione di Papa Francesco “giù le mani dall'Africa” - in occasione del suo viaggio in Repubblica Democratica del Congo e Sud Sudan - rimanda proprio al bisogno di lasciare la presa, di "non vedere l'Africa come qualcosa che va sistemata grazie all'intervento dell'Occidente - sottolinea Faloyin - ma invece di dare 'potere' alle persone africane, dare loro lo spazio, risorse per cambiare i propri destini in un modo che sia significativo per le popolazioni stesse".
Un problema di linguaggio
In ballo c'è sempre la necessità di usare un linguaggio pertinente. "Quindi, se si parla di Africa occidentale, si parla di Africa occidentale; se si parla di Africa meridionale, si parla di Africa meridionale. Le sfide dell'Africa centrale non sono le stesse di quelle dell'Africa orientale. Per esempio, Africa subsahariana, credo sia un'espressione che viene spesso usata in modo non abbastanza specifico", insiste. Ma perché la lotta per la democrazia in molti Paesi africani, ormai non solo, è così difficile? "Oggi la stragrande maggioranza dei Paesi ha un regime democratico ma, nelle fasi iniziali del processo democratico, come ho spiegato anche nel libro, molti Paesi sono stati creati essenzialmente per essere il più instabili possibile, soprattutto le ex colonie britanniche sono state create per creare il più possibile caos e divisione all'interno di quei Paesi. Si è trattato di politiche di divide et impera che spesso davano potere alle persone più ricche e senza scrupoli".
La creatività dei movimenti giovanili
Dipo accenna ai suoi ricordi preferiti di quando a Lagos, dopo la scuola, giocava con gli amici e la famiglia a casa sua. "Credo che questa sia la cosa migliore di Lagos: è una città in cui si vive all'aria aperta, c’è il senso della comunità che altrove abbiamo perso e anche una forte cultura. Spero continueremo a mantenere questo sostegno reciproco, che credo sia qualcosa che la cultura nigeriana apprezza molto". È molto ottimista sul futuro della Nigeria: i giovani stanno facendo molto oggi; c'è una generazione che è estremamente creativa e che sta trovando nuovi modi per cercare di cambiare la cultura e la politica del Paese a beneficio del maggior numero di persone. Lo abbiamo visto nei recenti movimenti di protesta giovanili e abbiamo visto anche i valori sostenuti da questi movimenti. Ma - conclude - tutte queste cose richiedono sempre del lavoro. Ci saranno dei progressi". Dal Camerun, notizia di questi giorni, arriva la nuova direttrice della prossima Biennale di Venezia, Koyo Kouoh. Anche questo un segno di dinamismo culturale che erode facili stigmatizzazioni: "Ogni opportunità che abbiamo di curare le nostre storie e di mostrarle è qualcosa di davvero prezioso. Abbiamo sempre avuto narratori in tutto il continente, non è una novità. La novità è l'aver messo a disposizione queste piattaforme globali, che spero aiutino la comunità e le persone di tutto il mondo ad andare a cercare i nostri creativi. Penso sia davvero fantastico".
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