Libano, tra gli effetti della tregua e la necessità di stabilizzazione del sistema
Roberto Paglialonga – Città del Vaticano
Al netto delle “schermaglie militari” di queste ore, la tregua tra Israele e Hezbollah durerà fintanto che le parti ne potranno beneficiare, sebbene nessuna delle due abbia raggiunto in effetti gli obiettivi dichiarati all’inizio della guerra; e l’intesa stessa, ora, potrà avere conseguenze anche sulla situazione politica in Libano. Ne è convinto il professor Elie Al Hindy – oggi docente al dipartimento di sicurezza e global studies della American University in the Emirates a Dubai, ed ex direttore esecutivo della Adyan Foundation di Beirut, ong impegnata in progetti di sviluppo, dialogo e cooperazione tra religioni –, il quale in una conversazione telefonica con L’Osservatore Romano spiega che "nell’accordo per il cessate-il-fuoco rimangono però ancora diversi aspetti poco chiari".
Un nuovo presidente e un nuovo governo
All’esercito libanese, secondo l’agreement, si dà ampio potere nel sud per impedire che Hezbollah accumuli armi in quell’area: tuttavia, "noi sappiamo che finora l’esercito non è stato in grado o non ha voluto confrontarsi direttamente con Hezbollah. Quindi a meno che le forze armate non abbiano un mandato estremamente preciso, per loro non sarà possibile portare a termine la missione. E questa volontà politica – sottolinea ancora – potrà venire solo nel momento in cui in Libano ci saranno un nuovo presidente (il Parlamento è stato convocato il 9 gennaio prossimo per l’elezione, dopo due anni di vuoto istituzionale, ndr) e un nuovo governo che vadano nella stessa direzione dell’accordo, collocando così nuovamente il Paese nel posto che gli spetta all’interno della comunità internazionale e del gruppo degli Stati arabi". Pertanto, "ci aspettiamo riforme che devono necessariamente includere il controllo dei confini, delle armi, e una sovranità effettiva. Solo così sarà possibile per l’esercito svolgere efficacemente il compito richiesto".
Irrealistico pensare allo sradicamento di Hezbollah
Tecnicamente, aggiunge Al Hindy, che è anche analista per l’emittente saudita Al Arabiya, sarà interessante vedere "come nelle aree al di sotto del fiume Litani – dove dovrebbe operare l’esercito e da cui Hezbollah dovrebbe evacuare – si sarà in grado di relazionarsi con parte della popolazione, che di fatto include sostenitori attivi del gruppo islamista". Senza considerare che, "quando un movimento come quello di Hezbollah è sostenuto da una ideologia pervasiva e da una legittimazione politica forte, pensare alla sua distruzione o al suo sradicamento è irrealistico, se non forse dal punto di vista della capacità militare". Per parte sua, dice ancora, Hezbollah deve decidere "se vuole continuare a operare inserendosi in un arco istituzionale e politico legittimo, oppure tentare di riarmarsi continuando a essere un fattore di instabilità".
Il ruolo primario del dialogo interreligioso
In questa fase di incertezza – una "zona grigia" – rischiano di farne le spese, oltre ad altri gruppi minoritari, anche le popolazioni cristiane. Queste, tuttavia, "hanno compreso che l’obiettivo prioritario ora è la garanzia della sicurezza e della sovranità dello Stato, il controllo del territorio da parte di un’autorità legittima, una revisione del sistema istituzionale, sociale ed economico in grado di mettere finalmente fuori gioco la corruzione e ridare prosperità al Paese, consentendo la salvaguardia di quelle libertà ritenute essenziali (di commercio, di religione, di educazione ecc). Le divisioni oggi sono più politiche, e per la maggior parte ruotano attorno al ruolo di Hezbollah, come gruppo militare, non come gruppo confessionale", spiega. Ciò non toglie che il dialogo interreligioso "continuerà ad avere un ruolo primario per la convivenza: esso è parte della ragion d’essere del Libano e della sua stabilità sociale. Cruciale soprattutto il dialogo nella vita di tutti i giorni, che si svolge nella quotidianità tra le varie comunità e i leader religiosi. Lo si è visto anche in questi mesi pesanti di conflitto".
Francia, Usa, Arabia Saudita, Iran
Altro elemento decisivo, in particolare nelle settimane in cui il cessate-il-fuoco rimarrà in piedi, ma non solo, sarà poi la capacità di azione da parte dei garanti, Francia e Stati Uniti. Joe Biden – anche per ottenere un risultato politico visibile in vista dell’imminente conclusione del suo mandato – ha esercitato fin qui grande pressione su Benjamin Netanyahu perché accettasse l’accordo, "e non c’è dubbio che anche il presidente eletto, Donald Trump, ne fosse a conoscenza: fonti ben informate dicono che egli abbia addirittura dato il suo benestare al piano".
In una prospettiva più in generale, invece, nella regione saranno determinanti sia l’Arabia Saudita che l’Iran. "Riyad ha deciso di non agire direttamente in Libano fino a che la situazione non si sarà stabilizzata. L’obiettivo dei sauditi è la prosperità economica nell’area, di cui trarre vantaggio, e lo stesso, viceversa, può valere per Beirut, che necessita di buoni rapporti con tutte le monarchie arabe del Golfo, oltre che del loro sostegno economico e finanziario per la ricostruzione. Quanto all’Iran è stato detto che abbia accettato l’accordo di tregua per lanciare un messaggio positivo a Trump prima del suo insediamento: adesso occorrerà capire se intenderà impegnarsi effettivamente nell’evitare un nuovo riarmo di Hezbollah". Tradizionalmente posizionate su poli opposti, Riyad e Teheran stanno ora cercando di trovare vie d’intesa: tanto che qualche settimana fa il ministro degli Esteri iraniano si è recato nella capitale saudita per incontri di alto livello. "La nuova politica di Mohammed bin Salman ha come obiettivo la prosperità economica, non il coinvolgimento militare in conflitti pericolosi. Sua intenzione - conclude Al Hindy - è convincere Ali Khamenei che questa prosperità è interesse anche di Teheran e di tutti gli attori regionali".
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