Myanmar, il coraggio della rinascita tra guerra, orrore e speranza
di Daniele Bellocchio
“Spegni il motore!”, è un ordine improvviso e perentorio quello che Abel, giovane rivoluzionario di soli 26 anni, membro del KNDF, Karenni Nationalities Defence Force, uno dei gruppi ribelli maggiormente attivi nella regione del Kayah State, urla al guerrigliero che sta manovrando la lancia che solca le rive del fiume Saleween. Un rombo in lontananza fa temere la presenza di un ricognitore della giunta, poi, appurato che si tratta di un falso allarme, il motore a gasolio viene riacceso e l’imbarcazione riprende la navigazione sulle acque fangose che attraversano la muraglia verde della foresta birmana. Da quando è esploso il conflitto in Myanmar, il Paese è divenuto inaccessibile per la stampa internazionale e il solo modo per poter andare a raccontare quanto sta accadendo nell’ex colonia britannica, è farlo clandestinamente, unendosi alle formazioni ribelli e con loro attraversare la frontiera con la Thailandia e intraprendere poi una lunga marcia nella giungla tropicale.
Dopo ore di navigazione la piccola barca attracca su una spiaggia presidiata da un avamposto ribelle, i giovani insorti scaricano viveri e armi e iniziano un viaggio a piedi, in pick up e a dorso di elefante che, solo dopo diversi giorni e notti nella giungla, li conduce a Demoso, la roccaforte della resistenza. Da subito la seconda città del Kayah State colpisce per la sua straordinaria bellezza: le risaie, dove in perfetta armonia uomini e donne lavorano sin dall’alba con indosso i tradizionali cappelli conici, le montagne lussureggianti e di infinite sfumature, e le pagode che si stagliano marmoree sul limite estremo di erte e forre. Ma è al di là del primo sguardo che si rivela il reale: la violenza, la distruzione e la miseria di una città divenuta centro nevralgico del conflitto e a soli dieci chilometri di distanza dalla prima linea.
La scuola Daw See Ei è un cumulo di macerie, l’istituto è stato bombardato il 5 febbraio 2024 e quattro studenti hanno perso la vita. Le tendopoli che accolgono decine di migliaia di sfollati si estendono tutt’intorno al centro abitato, la Chiesa di San Matteo è stata minata e data alle fiamme e stessa sorte è toccata alla chiesa cattolica Maria di Lourdes, nella zona est della città. “I soldati governativi hanno dato fuoco alla navata, poi hanno posizionato i cecchini ad ogni finestra e siccome le abitazioni davanti alla chiesa impedivano la visuale ai franchi tiratori, con i blindati sono state distrutte le abitazioni e i soldati del regime hanno cacciato i residenti”. Steven Pazi è membro del KNDF e mentre cammina nel silenzio della cattedrale, tra le panche distrutte e le pareti annerite dalle fiamme, prosegue raccontando: “In questa guerra non esiste più la pietà. Non c’è più alcun rispetto, né per Dio né per ogni essere vivente, questo conflitto, anche se il mondo non ne parla, ha oltrepassato la soglia dell’orrore”.
La guerra vede da un lato le truppe golpiste e dall’altro le organizzazioni ribelli composte sia dalle forze del People’s Defence Force, l’esercito del Governo di Unità Nazionale attualmente in esilio, sia dalle formazioni etniche che dal 1948 combattono per l’autonomia e i diritti delle minoranze indigene. Gli insorti non dispongono delle capacità militari dei lealisti, ma godono del supporto della popolazione locale e della diaspora che gli ha consentito di prendere controllo di più della metà del Paese. Per questa ragione la giunta colpisce i civili; per piegarli con la paura e vincerli con la disperazione. Da quando sono iniziati gli scontri le scuole bombardate sono state 174, più di 300 gli ospedali e le cliniche colpite e si è registrato un numero imprecisato di raid aerei anche sui campi profughi.
“L’ ospedale dove ci troviamo è stato costruito in un luogo segreto qui, nelle montagne intorno a Demoso, nel marzo 2024, perché l'aviazione della giunta ha bombardato il precedente ospedale". Soe Kan Naing è un medico di 31 anni, proviene da Yangon, ma nel maggio 2023 ha deciso di lasciare la sua città e trasferirsi nello Stato di Kayah. Protetti dalle fronde degli alberi e da alcune tende mimetiche, sono stati costruiti diversi rifugi. "La maggior parte delle persone che trattiamo sono vittime di esplosioni, colpi di artiglieria e mine e nella stragrande maggioranza dei casi dobbiamo amputare gli arti per salvare il paziente”. Ci sono donne, uomini e anche bambini nelle capanne di bambù e rafia dell'ospedale, giacciono in silenzio, circondati da una rete di tubi e bende insanguinate: iconica e muta rappresentazione della sofferenza che i civili stanno patendo a causa della guerra. “I soldati della giunta commettono ogni genere di crimine: bruciano villaggi, uccidono civili, stuprano donne. E qui, tutto questo va avanti da anni”. Spiega il giovane medico che prima di tornare in corsia si lascia andare a un’ultima confessione: “Noi vogliamo la democrazia in Myanmar, ad ogni costo, perché non c’è nulla di più prezioso al mondo che poter vivere liberi e in pace nella propria terra”.
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