Rebibbia, la comandante: la visita del Papa riconoscimento della nostra missione
Roberta Barbi – Città del Vaticano
Non è solo un lavoro, ma una vocazione, e ora, grazie alla visita del Papa diventa “un riconoscimento del nostro impegno come una missione di misericordia e speranza”. Così la comandante del corpo di Polizia Penitenziaria dell’istituto di pena romano di Rebibbia Nuovo Complesso, Sarah Brunetti, racconta ai media vaticani la sua particolare attesa dell’ormai prossimo 26 dicembre: “Ringrazio il Santo Padre per la sua costante attenzione e perché mette sempre il mondo penitenziario al centro della misericordia; grazie a lui ci sentiamo coinvolti in questo progetto di speranza che ha un suo momento molto importante nel prossimo Giubileo”.
In carcere per non aver conosciuto la tenerezza
“Despondere spem est munus nostrum – Garantire la speranza è il nostro compito” è il motto della Polizia penitenziaria è incredibilmente affine con lo spirito dell’Anno Santo che si apre: “Spesso chi è in carcere vi si trova perché non ha mai conosciuto la tenerezza o perché non ha ricevuto speranza – afferma – il nostro compito è dare speranza anche alla società esterna, restituendole persone nuove, riabilitate; la speranza è un concetto che si riferisce al futuro, ma va costruito nel presente”. La comandante racconta poi come il patrono del corpo sia San Basilide, martire della fede non solo professata, ma concretamente vissuta fino al sacrificio, e illustra lo stemma araldico della Polizia Penitenziaria, in cui campeggiano delle fiamme: “Sono le fiamme della speranza e della misericordia, alimentate dal nostro impegno quotidiano”.
Il muro di cinta impermeabile al pregiudizio
Quanto al rapporto, spesso problematico, tra l’opinione pubblica e il carcere, Brunetti non ha dubbi: “Il muro di cinta non è attraversato dai pregiudizi - spiega - all’interno del carcere il giudizio è sospeso pe restituire la fiducia ai detenuti; solo così possiamo diventare latori di misericordia e portatori di quella speranza di cui parliamo”. Il carcere è un’istituzione totale per tutti coloro che ci vivono, per condanna o per lavoro; non è un caso che il dramma dei suicidi coinvolga anche gli agenti di Polizia Penitenziaria: “A volte il diaframma che divide le difficoltà dei diversi attori penitenziari è molto sottile – conferma la comandante – così le sofferenze si contaminano a vicenda”.
Il peso della sofferenza altrui
Nonostante il carico di dolore e la pressione siano notevoli, non si deve mai perdere il sorriso in questo lavoro nobile e delicato: “Occorre spirito di missione, senso di umanità ed essere pronti a sostenere le sofferenze altrui”. La comandante esorta, quindi, i giovani a intraprendere la strada che conduce a indossare questa divisa: “È un’occasione per realizzare i valori del rispetto, della sensibilità e del coraggio, perché ci vuole molto coraggio a prendersi la responsabilità di altri essere umani – ricorda con orgoglio – per me è stato così: un modo bellissimo per vincere le mie fragilità personali ed essere di aiuto agli altri”.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui