Siria, tornati alla vita dal buio di Sednaya
Beatrice Guarrera – Città del Vaticano
Dal giorno della caduta del governo di Bashar al-Assad non è rimasto più nessuno chiuso tra i suoi potenti cancelli, eppure il suo nome continua a far paura nei racconti dei sopravvissuti: il carcere di Sednaya, a 27 chilometri a nord di Damasco, è stato un simbolo di repressione degli oppositori politici di Assad. Le testimonianze delle violazioni dei diritti umani che lì sono state compiute si rincorrono una dopo l’altra, su ogni mezzo di comunicazione, da quando i miliziani delle forze di opposizione sono entrati nella prigione e decretato il liberi-tutti. È tempo di parlare, di denunciare, per molti prigionieri. Parlano i corpi dei vivi e anche quelli dei morti, rinvenuti in diverse fosse comuni scoperte a pochi chilometri dalla prigione di Sednaya. Se ne contano a migliaia e molti hanno ipotizzato proprio che provengano da lì o da altre carceri siriane. D’altronde Amnesty international è dal 2017 che denuncia una campagna pianificata dal governo siriano di esecuzioni extragiudiziali mediante impiccagioni. Lo aveva documentato con il report intitolato Il mattatoio di esseri umani: impiccagioni di massa e sterminio nella prigione di Sednaya, che riportava anche le condizioni inumane di detenzione all’interno della prigione, tra cui torture, diniego sistematico di cibo, acqua, medicinali e cure mediche. Condizioni che sono state confermate da coloro che hanno avuto la fortuna di uscirne vivi.
L’orrore delle torture
«Dal 2013 fino a metà del 2014, ho trascorso un anno e mezzo a Sednaya — racconta al Khaled, un siriano di 35 anni, ora rifugiato in Italia —. Eravamo circa novanta persone in una stanza grande quattro metri per quattro. Si può solo immaginare cosa significa anche soltanto respirare in uno spazio così ristretto». Khaled — costretto a svolgere il servizio militare per l’esercito di Assad, impossibilitato a scappare dal Paese, perché senza passaporto — ricorda bene quei mesi bui, giunti dopo l’accusa di aver organizzato una manifestazione pacifica, ai tempi della “primavera araba”. I prigionieri erano bendati giorno e notte, per impedire loro di guardare in volto i carcerieri, trascorrevano le giornate senza dormire, da mangiare avevano solo un pezzo di pane e patate bollite. Anche solo provare a sedersi per terra era un’impresa: si mettevano accovacciati uno dentro l’altro — ha raccontato Khaled in un documentario video — appoggiando la fronte sulla schiena del compagno davanti, fino a diventare un unico immenso corpo sofferente. Senza parlare delle torture che venivano inflitte con ogni mezzo a chi di loro veniva chiamato fuori dalla stanza. «Sto facendo questa intervista — precisa l’uomo — anche perché tutte le porte delle prigioni sono aperte. Le persone sono uscite a migliaia: alcuni sono diventati matti, hanno malattie, tutti psicologicamente abbiamo bisogno di aiuto». Khaled racconta di essere riuscito a uscire dal carcere, grazie all’intervento dei genitori che hanno pagato una somma ingente per avere sue notizie. Da lì poi un’altra Odissea: un soldato che viene considerato “disobbediente” viene mandato in prima linea al fronte di guerra. Così i suoi giorni hanno oscillato pericolosamente tra la vita e la morte, come «un tirare a sorte». Dalla prima linea di Aleppo, Khaled è riuscito poi a scappare ed arrivare in Libia, dove ha preso una barca, ha lottato per la sopravvivenza in mare, fino a chiedere asilo in Italia. «Quando sono uscito da Sednaya — osserva — sono stato molto fortunato perché sono riuscito innanzitutto a farlo con i miei piedi, sono riuscito di nuovo a pensare, a amare, a studiare, a lavorare, a partire. C’è gente lì che è morta. Io stesso ho dormito sopra due persone che erano morte da una settimana e che non facevano uscire dalla cella».
Il giorno della liberazione
Sono migliaia coloro che hanno dovuto aspettare fino all’8 dicembre, giorno della caduta di Assad, per vedere la luce. Come Zuhair, uno studente dell’università di Damasco che svolgeva attività di documentazione video nella sua città, Daraa, e che è stato arbitrariamente imputato di terrorismo, un’accusa infamante associata a molti giornalisti, come documentano diverse organizzazioni per i diritti umani. «Prima dell’8 dicembre — spiega ai media vaticani Zuhair, sopravvissuto sei anni nelle carceri siriane, di cui cinque a Sednaya — non avevamo idea di cosa stesse succedendo fuori. All’improvviso, abbiamo iniziato a sentire degli spari. La prima idea che ci è venuta in mente è che potesse trattarsi di una rivolta all’interno della prigione stessa. Poi sono venuti alla porta della nostra cella e l’hanno aperta e ci hanno detto che eravamo tutti liberi: “Il regime è caduto. Potete uscire. Potete tornare a casa vostra”». Zuhair parla di una gioia profonda ma anche di tanta incredulità: «Non potevamo credere a quello che avevamo sentito, e non sapevamo se quella fosse la verità o no, finché non siamo usciti dalla prigione, abbiamo visto tutti uscire dalle celle, andare in strada e cercare di raggiungere le loro case». Nonostante le durissime condizioni di vita, il giovane racconta di non essersi mai arreso e di aver sempre coltivato la speranza: «Abbiamo fatto del nostro meglio dentro la prigione per restare in vita. Alcuni hanno insegnato ad altri a leggere e scrivere, come me. Altri hanno diffuso pratiche e strumenti di infermieristica. Vivevamo con la luce accesa 24 ore su 24 dentro la prigione, senza mai vedere il sole». «Tutti i siriani — osserva Zuhair — dentro o fuori le prigioni, hanno sacrificato molto. Quindi vogliamo che questo sacrificio non sia vano. Dobbiamo metterci insieme per ricostruire di nuovo la Siria, dove nessuno venga ucciso, nessuno viva al di fuori dalla legge. Insieme possiamo costruire una Siria migliore».
Dal 2011 circa 130mila scomparsi
«È tempo di accettare che i loro cari sono stati uccisi, pregare per loro e andare avanti». Così afferma Anass, in merito ai tanti familiari dei prigionieri che hanno perso la vita. Il giovane siriano rifugiato in Francia dal 2011 ha gestito un database di vittime di sparizione forzata e violazioni dei diritti umani. Come ingegnere informatico, il suo coinvolgimento in questo campo è arrivato per la necessità di documentare cosa accadeva intorno a lui, prima fondando una piccola Ong e poi, dopo essere stato incarcerato due volte e aver lasciato il Paese, collaborando con l’Alto commissariato per i diritti umani della Nazioni Unite. Tanti i nomi, le voci, le lacrime e le speranze raccolte da Anass in questi anni difficili. Sarebbero infatti quasi 130mila le persone scomparse dal 2011, di cui molti parenti hanno cercato notizie notte e giorno nel carcere di Sednaya, quando le porte sono state aperte. «Vorrei che tutto il mondo tenga d’occhio le famiglie degli scomparsi che hanno ancora bisogno di aiuto». Certamente la pace che potranno avere dal sapere la verità sulla sorte dei loro cari sarà un punto di partenza per ricostruire il futuro. «Abbiamo tante speranze e anche tante sfide davanti a noi», spiega Anass. «Vorrei che un giorno qualcuno ricordasse Sednaya e venisse a visitarla non per il carcere, ma per la bellezza della vicina città. È una delle città più belle, a maggioranza cristiana». Nel periodo natalizio si vedono sempre tante luci, infatti, che accendono la speranza di una vita nuova.
Gli abusi sulle donne
Una vita nuova anche per le tante donne con bambini liberate da Sednaya. «Abbiamo in cura un’ex detenuta che ha trascorso 8 anni nella prigione di Sednaya — hanno dichiarato i responsabili delle attività di salute mentale e mediche di Medici senza frontiere a Idlib —. Oggi ha 27 anni. Suo figlio ne ha 8. Il bambino non sa cosa sia un biscotto, un albero o un uccello, nemmeno un giocattolo con cui giocare. Non sa leggere, né scrivere. Ha visto sua madre subire abusi fisici e sessuali. È stato davvero difficile parlare con lui».
Sicurezza, dignità e giustizia per tutti
Nonostante il male e le speranze degli ultimi giorni, afferma ancora Khaled, la Siria oggi è come un uomo che guida una macchina nell’oscurità, senza sapere dove andare. Bisogna fermarsi e aspettare il giorno, per capire se veramente ci sarà sicurezza, dignità, giustizia per tutti, e poi valutare se sarà possibile tornare. «È il tempo di aspettare», ma ancora «c’è speranza, le cose finiscono, non rimangono per sempre».
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