La storia di Trudy Stricks, che tutti credevano morta ad Auschwitz
Roberto Paglialonga – Città del Vaticano
Gertrude nel 1944 ha appena cinque anni. Appartiene a una famiglia polacca di origine ebraica e, nell’Europa in cui la macchina della Shoah ha iniziato la sua marcia di morte, il suo destino appare segnato. Scappata dalla Francia con i genitori, giunge a Roma. La capitale è occupata dalle forze nazifasciste e la piccola viene catturata assieme al papà: i due vengono rinchiusi a Regina Coeli in attesa del trasferimento a Fossoli (vicino a Carpi) e quindi ad Auschwitz. Il destino, si sa, può essere crudele, spesso addirittura abominevole, e basta appartenere alla religione o al popolo “sbagliati” per perdere ogni chance di futuro. Eppure talvolta, più di quanto si pensi, riserva sorprese, e bisogna saper cogliere, come diceva Italo Calvino, «chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno». È allora che il dramma si trasforma in un’occasione di rinascita e salvezza. Sono le sliding doors della vita.
Nel febbraio di quell’anno, Isidor Stricks (questo il nome del papà della bimba), nel momento in cui sta per essere trasportato con Trudy nel lagerk, a bordo di un camion, proprio mentre il mezzo inizia a muoversi, fa appena in tempo a porgere la figlia a una donna sconosciuta che assiste alla deportazione. Si chiama Marcella Ficca, è la moglie di Alfredo Monaco, medico notturno del carcere. È un attimo. Una scena che nella sua tragicità sembra addirittura cinematografica, e nell’immagine della camionetta che si allontana, lasciando indietro un’esistenza, si vede quasi quella con Anna Magnani nell’indimenticabile Roma città aperta. Anche se Trudy, rispetto a Pina, la protagonista del film di Rosellini, avrà un destino decisamente diverso. Così Alfredo — che dal 1986 per quasi quindici anni sarà direttore sanitario dell’ospedale Forlanini — e Marcella la proteggono e la “adottano” per diversi mesi. Tra loro, le parole non aiutano a capirsi, il polacco e l’italiano sono idiomi rispettivamente incomprensibili, e a vincere è solo il linguaggio della carità e dell’amore donato.
Nel giugno del 1944 la mamma Fanny, in quei mesi rimasta nascosta in un convento, ritrova la figlia grazie all’aiuto della comunità ebraica. Da quel momento le tracce di Gertrude si perdono. Fino a oggi.
A ricostruire il puzzle di questa vicenda incredibile è la professoressa Maria Grazia Lancellotti, preside del liceo Orazio di Roma, che coordina le ricerche storiche del progetto Il civico giusto, nato da un’idea di Paolo Masini per raccogliere esempi di solidarietà e umanità negli anni del fascismo e delle leggi razziali. «Facciamo parlare — grazie alla voce di attori famosi, da Giovanni Scifoni a Neri Marcorè a Enzo Decaro — i palazzi e i civici dove queste storie avvennero», dice a «L’Osservatore Romano». E aggiunge: «Il nostro scopo non è solo storiografico, ma educativo: vogliamo che i giovani, riuniti nella rete di scuole Memorie. Una città, mille storie, partecipino attivamente alla raccolta, trascrizione e rielaborazione delle testimonianze, per capire come il mondo sia frutto di scelte, grandi e piccole, che siamo chiamati a fare ogni giorno».
La storia di Gertrude «è davvero uscita all’improvviso», spiega ancora. «Lavorando alla vita dei coniugi Monaco, e ricercando notizie sulla fuga da Regina Coeli di Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, che la coppia assieme ad altri aveva propiziato, ci siamo letteralmente imbattuti nella testimonianza di Marcella, che in un video custodito dalle teche Rai raccontava di questa bambina». Da lì inizia un’opera di scavo tra fonti orali e archivistiche, «a partire dall’unico dato disponibile, il cognome della piccola e di suo padre: Stricks». Questo porta Lancellotti a raccogliere informazioni discordanti: «Tutti i documenti mostravano come Trudy fosse morta assieme a Isidor ad Auschwitz, eppure i racconti dei Monaco parlavano del suo ritorno fra le braccia della madre naturale». A un certo punto, la svolta: «Incrociando i dati, comprese le varie forme nelle quali il cognome poteva essere scritto, si scopre la vicenda poco nota di 1.000 profughi che, grazie al presidente americano Franklin D. Roosevelt, salparono da Napoli il 20 luglio 1944 verso gli Stati Uniti, a bordo della nave Gibbons: fra di loro risultavano due nomi che rimandavano proprio alla bambina polacca e a sua madre. Ho capito che non poteva essere una coincidenza e da quel piccolo indizio siamo arrivati oltreoceano e alla clamorosa scoperta».
Gertrude è viva, oggi ha ottantasei anni e abita ancora negli Usa. «Abbiamo organizzato l’incontro tra suo figlio Brian e la moglie, venuti in Italia appositamente, con i nipoti dei Monaco, che già all’epoca in cui ospitarono Trudy avevano due figli. Gertrude si è invece collegata online. Alfredo e Marcella l’hanno cercata tutta la vita, ma purtroppo sono morti senza sapere se si fosse salvata o meno. È stato un incontro molto commovente, siamo stati a visitare il carcere trasteverino e anche il convento nel quale Fanny si era rifugiata. Un vero percorso della memoria attraverso Roma». Gertrude e il figlio ora hanno avviato la pratica per il riconoscimento dei coniugi Monaco come Giusti tra le Nazioni allo Yad Vashem. La verità è stata ristabilita anche per il padre di Trudy, morto non ad Auschwitz, come si pensava, ma a Mauthausen. «Grande è il tema della scelta quando ci si trova davanti a un bivio, proprio come accaduto a Isidor. È bastato uno sguardo, tra lui e Marcella, per cambiare il corso del destino di una bambina. Poi colpisce il suo gesto istantaneo di “disperazione-amore”, totalmente avvolto dal mistero: comunque la si guardi, una scelta straziante. Oltre a quello, non scontato, di chi non si voltò dall’altra parte, come ebbero il coraggio di fare i Monaco». È il valore della piccola storia che si intreccia, attraversa, e spesso fa, la grande Storia. «E nella quale, senza rendercene conto, ciascuno di noi lascia la propria impronta», conclude.
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