In Cisgiordania polemiche per la decisione dell'Anp di bloccare Al-Jazeera
Roberto Paglialonga - Città del Vaticano
La decisione presa il primo gennaio da parte dell’Autorità nazionale palestinese di sospendere le attività di Al-Jazeera in Cisgiordania non poteva non sollevare contestazioni e polemiche. Sia perché testimonia una volta di più le difficoltà e gli impedimenti, quando non le censure, cui i giornalisti vanno incontro nel raccontare le guerre nei contesti di crisi, come su queste pagine si è già avuto modo di evidenziare negli ultimi giorni; sia perché certifica spaccature all’interno della società e delle forze politiche palestinesi che paiono al momento difficilmente ricomponibili. Viene da chiedersi: perché una misura così restrittiva in questo momento? E ancora: qualcuno ha paura della verità?
Le operazioni militari dell’Anp a Jenin
Da inizio dicembre le forze di sicurezza dell’Anp sono coinvolte in violenti scontri nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania, con fazioni armate della “resistenza palestinese”, che hanno già provocato una decina di morti, tra cui anche diversi civili. Questi gruppi, la maggior parte dei quali appartengono al movimento islamista Hamas e alla Jihad islamica, ma non solo, si considerano più efficaci nel combattere Israele rispetto all’organismo controllato dal presidente palestinese, Mahmoud Abbas, con il quale esiste una ruvida, e spesso violenta, competizione. Di più: il partito Fatah, su cui è imperniata l’Anp, viene accusato di “fare gli interessi” di Benjamin Netanyahu e dell’occidente, anziché di lavorare per la liberazione della Palestina. Da parte delle forze militari del governo di Ramallah, quello di Jenin è uno degli assedi più duri contro membri delle milizie definite “fuorilegge”, anche se esso ha finito per colpire tutti i residenti della città, i quali, in un gran numero, si sono a loro volta ribellati all’operazione di sicurezza.
La decisione di bloccare la tv del Qatar
In questo contesto, ad esacerbare ulteriormente gli animi, è intervenuta la decisione dello stop imposto ad Al-Jazeera, accusata — secondo quanto riferisce l’agenzia di stampa Wafa — di «trasmettere contenuti e reportage caratterizzati da disinformazione, incitamento alla sedizione e interferenza negli affari interni palestinesi». In sostanza, spiegano voci ufficiali palestinesi, la tv qatariota in Palestina sarebbe ormai un movimento politico fiancheggiatore di Hamas e del terrorismo. Una ricostruzione che lascia comunque diverse perplessità, se non altro perché a prevalere è il tentativo — da condannare — di silenziare una fonte di informazione, spesso l’unica in quelle aree, anziché contrastarla eventualmente sul piano delle idee. Tra l’altro stanno facendo il giro dei social molti video di abusi perpetrati dai soldati dell’Anp contro gli oppositori politici.
Le proteste contro Mahmoud Abbas
Dunque ha gioco facile nel suo contrattacco l’emittente qatariota, che definisce la decisione «una campagna di intimidazione» ai suoi danni, ovvero «un tentativo di nascondere la realtà di quanto avviene in Cisgiordania», e critica Abbas per essersi allineato alle politiche di Netanyahu (lo scorso maggio infatti il governo israeliano — che in Palestina conduce ormai da un anno pesanti incursioni e raid — aveva ratificato la chiusura degli uffici di Al Jazeera nei propri territori con l’accusa di «danneggiare la sicurezza del Paese»). Parole che certo non hanno fatto piacere alla dirigenza dell’Anp, la cui mossa ha sollevato il biasimo, scontato, di Hamas, ma anche quello delle Nazioni Unite. La relatrice speciale Onu sui Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha chiesto di revocare la decisione, come fatto in occasione di quella presa da Israele, perché «il giornalismo non è un reato». Poco chiara, invece, la posizione del Sindacato dei giornalisti palestinesi (Pjs), che se da un lato ha chiesto all’Anp il rispetto della libertà di stampa, dall’altro ha esortato la tv del Qatar «a cessare la sua politica di istigazione e a interrompere qualsiasi pratica che possa danneggiare l’unità palestinese, la pace civile e l’armonia sociale».
Le ipotesi sull’operato di Ramallah
Moltissimi palestinesi, e così diversi analisti, hanno espresso la convinzione che Abbas voglia accreditarsi presso gli Usa, già prima dell’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, come interlocutore affidabile per la gestione di Gaza dopo il conflitto. Più maliziosa è, invece, l’interpretazione di quanti vi scorgono la volontà di mandare un segnale al Qatar proprio ora che a Doha sono ripresi i colloqui per il cessate-il-fuoco e la liberazione degli ostaggi.
La morte della reporter al-Sabbagh
Non è solo una questione formale o legale, quella della copertura mediatica. Perché a rimetterci, spesso, sono in prima persona anche giovani giornalisti che soprattutto con i loro post documentano quanto avviene in Palestina. Ha fatto scalpore l’uccisione il 28 dicembre scorso di Shatha al-Sabbagh, reporter ventunenne e studentessa della Al-Quds Open University, che aveva raccontato del clima di oppressione vissuto nel campo profughi di Jenin tra intimidazioni e minacce degli agenti dell’Anp. La ragazza è morta dopo essere stata colpita alla testa da un proiettile. La versione dei rappresentanti palestinesi è che sia rimasta incidentalmente vittima in un parapiglia scatenatosi tra miliziani e polizia dell’Anp, mentre quest’ultima stava cercando di recuperare auto governative rubate da jihadisti in fuga. La famiglia della ragazza e alcuni testimoni presenti sul luogo dell’accaduto raccontano invece un’altra verità: Shatha si trovava per strada con la madre e con due nipotini di uno e tre anni quando è stata uccisa deliberatamente da un cecchino perché documentava fatti non graditi alle autorità locali.Tuttavia, al di là della dinamica del singolo accadimento, che purtroppo non è l’unico nel suo genere, e mentre anche a Gaza continuano le violenze della guerra, rimane la domanda: a chi giova silenziare il giornalismo?
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