Ehud Olmert: Israele vive la crisi interna più profonda della sua storia
Roberto Cetera - Gerusalemme
Ha qualcosa di straordinario la passione, lucidità e vivacità con cui l’ex premier israeliano Ehud Olmert argomenta, a ben 79 anni, le sue radicate convinzioni politiche sulla situazione attuale in Israele e Medio Oriente. Lucidità e passionalità che ricordano qualcun altro. E infatti Olmert inizia la sua conversazione odierna, nel suo ufficio di Tel Aviv, con i media vaticani con un: «Ho una sintonia totale con le parole di Papa Francesco. La Chiesa cattolica ha un grande leader, l’unico vero leader mondiale propositore di pace e di un nuovo umanesimo. Se leggerà questa intervista vorrei che sapesse che non c’è giorno che io non preghi per lui, e per il suo ristabilimento in piena salute. Non solo la Chiesa ma l’intero mondo ha bisogno di lui».
Presidente Olmert, cosa sta succedendo in Israele?
Sta succedendo che il nostro paese sta attraversando la più profonda crisi interna della sua intera storia. E questo è l’effetto di una polarizzazione, che sarà pure un fenomeno mondiale, ma qui da noi è stata particolarmente fomentata dal governo di Benjamin Netanyahu e dei suoi alleati estremisti della destra nazionalista religiosa. Le dico la verità, da ebreo e da israeliano, provo una profonda vergogna ogni volta che sento le parole arroganti e minacciose dei ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.
Quando parla di crisi profonda si riferisce alle continue manifestazioni che si svolgono a Gerusalemme e Tel Aviv?
Sì, ma non solo a quelle. È evidente che ormai la maggioranza degli israeliani vuole la conclusione della guerra, il ritorno degli ostaggi e la fine del governo Netanyahu. Questo governo è minoranza nel paese. Ma c’è anche una crisi profonda nelle istituzioni. Pensi alla questione delle nomine: Netanyahu continua a cambiare a suo piacimento ministri, generali, giudici, come se lo Stato fosse cosa sua. Sempre alla ricerca di qualcuno che gli sia più fedele. Pensi, per esempio, alla vicenda dell’avvicendamento al vertice dei servizi segreti. Prima ha licenziato il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, pensando di nominare uno che gli risultasse più fedele, poi è apparsa in giro una foto che ritraeva il nominato partecipare ad una manifestazione contro il governo, e dopo tre ore anche questa nomina è stata liquidata. O pensi alla legge che limita i poteri dell’autorità giudiziaria e della Corte Suprema. O alla vicenda che ha portato agli arresti di due collaboratori del primo ministro, al cosiddetto «Qatargate». E alle minacce contro la libertà di stampa, alla ventilata privatizzazione del canale televisivo pubblico «Kan 11». O all’ostinazione con cui si rifiuta la costituzione di una commissione d’inchiesta indipendente sul 7 ottobre. Netanyahu vede nemici dappertutto.
Presidente Olmert, sta dicendo che Israele sta prendendo la strada dell’autocrazia?
Io credo che Israele sia tuttora un paese democratico. Il fatto che io, ex premier, possa dire queste cose a lei in un’intervista ne è la prova. Così come lo sono le massicce manifestazioni contro il governo. Tuttavia debbo constatare che Israele non è più la democrazia del passato, quella democrazia per la quale siamo stati orgogliosi nel mondo. Il paese dei Rabin, dei Shimon Peres. Della vecchia guardia siamo rimasti io ed Ehud Barak ad avere quella visione di un Israele democratico.
Tutto ciò si riflette sulla guerra a Gaza, che prosegue inesorabilmente e continua a mietere vittime...
Sì. E purtroppo non si vede una via d’uscita. Anche gli iniziali propositi pacificatori di Donald Trump sembrano essersi insabbiati. Io penso, e spero, che prima o poi Trump — che non annovera tra le sue virtù quella della pazienza — si stancherà della protervia bellicista di questo governo. Per ora Netanyahu rimane attaccato a Trump per un semplice motivo: è l’unico che continua a dargli retta, nel resto del mondo prevale la sfiducia nei suoi confronti e nel modo in cui Israele sta conducendo la guerra. Ma è difficile veramente fare delle previsioni. D’altronde l’imprevedibilità è una delle costanti della storia politica di questo paese. Ricorda quando Begin divenne primo ministro? In Occidente si disse che era arrivato al potere un ex terrorista dell’Irgun, poi però Begin fu quello che a Camp David riconsegnò il Sinai agli egiziani, conquistandosi il Nobel per la pace. E il “falco” Sharon? L’unico premier israeliano che impose il ritiro da Gaza di 21 colonie e di migliaia di settlers.
Cinquantamila morti: a Gaza si sta consumando, come alcuni dicono, un genocidio?
Direi di no. Perché le atrocità a cui assistiamo a Gaza non sono la conseguenza di un piano preordinato di sterminio della popolazione palestinese. Se non c’è intenzionalità non c’è genocidio. Anzi — le dirò — gran parte di queste casualties sono dovute al modo in cui Hamas conduce la guerra, mimetizzando i propri miliziani nei cunicoli, negli edifici, accanto alle abitazioni civili. Ciò non toglie che questa guerra abbia espresso una carica distruttiva eccessiva, di cui sono vittime tanti innocenti.
Lei continua a dire che la maggior parte degli israeliani, circa l’80%, vuole la fine della guerra. Ma i sondaggi riferiscono anche un altro dato contrastante: che il 70% non vuole sentire parlare della soluzione dei “due Stati”; e un voto della Knesset lo ha anche sancito. Lei è stato il primo ministro che più si è avvicinato a questa soluzione senza però raggiungerla. Perché continua a sostenerla con tanta forza?
Vede, mi danno dell’utopista e mi accusano di voler fare la pace con i nemici. Ma io rispondo: certo, la pace si fa con i nemici mica con gli amici. I palestinesi sono i nostri nemici? Sì, sono d’accordo: dunque è con loro che dobbiamo fare la pace. Il 70% non lo vuole? Beh, io sono contento che già il 30% lo voglia. Cresceremo, acquisteremo consensi, prima un 10, poi un altro, e un altro ancora, finché non saremo maggioranza. E sa perché sono così fiducioso? Semplicemente perché non c’è altra alternativa ai “due stati”. Se c’è qualcuno che pensa che, a parte le ridicole ed irrealizzabili deportazioni di massa, ci sia un’alternativa credibile ai due Stati, la dica. Io non ne conosco. E penso che il piano su cui lavorai nel 2006 con Abu Mazen sia ancora oggi praticabile, con qualche piccolo aggiustamento. Così come ho avuto modo di presentarlo a Papa Francesco, quando mi ha ricevuto insieme al partner di questa mia battaglia, l’ex ministro degli esteri palestinese, Nasser Al-Kidva. Ma, proprio perché non sono un utopista, mi rendo ben conto che oggi la soluzione dei “due Stati” richiede preliminarmente un ricambio di leadership in entrambi i campi. E confido molto nello spirito di pace di Papa Francesco.
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