Papa a udienza generale: davanti a Dio nessun trucco, preghiamo per i poveri
Giada Aquilino - Città del Vaticano
La preghiera non è un’“anestesia” per stare più tranquilli, pensando soltanto all’“io”, ma è una “supplica” per chiedere il pane “per tutti i poveri del mondo”. Con queste parole Francesco, all’udienza generale in Aula Paolo VI, prosegue le catechesi sul Padre nostro (Ascolta il servizio con la voce del Papa).
Gesù non vuole ipocrisia
Soffermandosi sull’invocazione al “Padre di tutti noi”, il Papa riflette sul modo con cui Gesù ci ha insegnato a pregare: i suoi discepoli infatti non lo fanno stando “dritti in piedi nelle piazze per essere ammirati dalla gente”.
Gesù non vuole ipocrisia. La vera preghiera è quella che si compie nel segreto della coscienza, del cuore: imperscrutabile, visibile solo a Dio. Io e Dio. Essa rifugge dalla falsità: con Dio è impossibile fingere. E’ impossibile, davanti a Dio non c’è trucco che abbia potere, Dio ci conosce così, nudi nella coscienza, e fingere non si può. Alla radice del dialogo con Dio c’è un dialogo silenzioso, come l’incrocio di sguardi tra due persone che si amano: l’uomo e Dio incrociano gli sguardi, e questa è preghiera. Guardare Dio e lasciarsi guardare da Dio: questo è pregare. “Ma, padre, io non dico parole…”. Guarda Dio e lasciati guardare da Lui: è una preghiera, una bella preghiera!
L’assenza dell’“io”
Tale preghiera “non scade mai nell’intimismo”: il cristiano, spiega, non lascia il mondo “fuori dalla porta” ma ha “nel cuore” le persone e le situazioni, i problemi, “tante cose”, portandole tutte “alla preghiera”. Quindi evidenzia quella che definisce “un’assenza impressionante” nel testo del Padre nostro, quella di una parola che – osserva “ai nostri tempi - ma forse sempre - tutti tengono in grande considerazione”, la parola “io”.
Gesù insegna a pregare avendo sulle labbra anzitutto il “Tu”, perché la preghiera cristiana è dialogo: “sia santificato il tuo nome, venga iltuo regno, sia fatta la tua volontà”. Non il mio nome, il mio regno, la mia volontà. Io no, non va. E poi passa al “noi”. Tutta la seconda parte del “Padre nostro” è declinata alla prima persona plurale: “dacci il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non abbandonarci alla tentazione, liberaci dal male”. Perfino le domande più elementari dell’uomo – come quella di avere del cibo per spegnere la fame – sono tutte al plurale. Nella preghiera cristiana, nessuno chiede il pane per sé: dammi il pane di oggi, no, dacci, lo supplica per tutti, per tutti i poveri del mondo. Non bisogna dimenticare questo, manca la parola “io”. Si prega con il tu e con il noi. È un buon insegnamento di Gesù, non dimenticatelo.
Siamo in comunità
Nessun “individualismo” quindi nel dialogo con Dio, né “ostentazione dei propri problemi come se noi fossimo gli unici al mondo a soffrire”.
Non c’è preghiera elevata a Dio che non sia la preghiera di una comunità di fratelli e sorelle, il noi: siamo in comunità, siamo fratelli e sorelle, siamo un popolo che prega, “noi”. Una volta il cappellano di un carcere mi ha fatto una domanda: “Mi dica, padre, qual è la parola contraria a ‘io’?”. E io, ingenuo, ho detto: “Tu”. “Questo è l’inizio della guerra. La parola opposta a ‘io’ è ‘noi’, dove c’è la pace, tutti insieme”. È un bell’insegnamento che ho ricevuto da quel prete.
Un cuore di pietra
Nella preghiera, quindi, “un cristiano porta tutte le difficoltà delle persone che gli vivono accanto”, i dolori e i tanti volti “amici e anche ostili”.
Se uno non si accorge che attorno a sé c’è tanta gente che soffre, se non si impietosisce per le lacrime dei poveri, se è assuefatto a tutto, allora significa che il suo cuore… com’è? Appassito? No, peggio: è di pietra. In questo caso è bene supplicare il Signore che ci tocchi con il suo Spirito e intenerisca il nostro cuore: “Intenerisci, Signore, il mio cuore”. È una bella preghiera: “Signore, intenerisci il mio cuore, perché possa capire e farsi carico di tutti i problemi, tutti i dolori altrui”.
Responsabilità di fratelli e sorelle
D’altra parte, ricorda, Cristo non è passato “indenne” accanto alle miserie del mondo: “ogni volta - mette in luce - che percepiva una solitudine, un dolore del corpo o dello spirito, provava un senso forte di compassione, come le viscere di una madre”. Questo “sentire compassione” - espressione “tanto cristiana”, sottolinea - è uno dei “verbi-chiave” del Vangelo, evidenzia Francesco richiamando la parabola del buon samaritano. Quindi esorta ad una riflessione comune:
Ci possiamo chiedere: quando prego, mi apro al grido di tante persone vicine e lontane? Oppure penso alla preghiera come a una specie di anestesia, per poter stare più tranquillo? Butto lì la domanda, ognuno si risponda. In questo caso sarei vittima di un terribile equivoco. Certo, la mia non sarebbe più una preghiera cristiana. Perché quel “noi”, che Gesù ci ha insegnato, mi impedisce di stare in pace da solo, e mi fa sentire responsabile dei miei fratelli e sorelle.
Per i malati e i peccatori
Gesù ci fa pregare, aggiunge, anche per quegli uomini “che apparentemente non cercano Dio”, perché Dio cerca queste persone “più di tutti”.
Gesù non è venuto per i sani, ma per i malati, per i peccatori – cioè per tutti, perché chi pensa di essere sano, in realtà non lo è. Se lavoriamo per la giustizia, non sentiamoci migliori degli altri: il Padre fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi. Ama tutti il Padre! Impariamo da Dio che è sempre buono con tutti, al contrario di noi che riusciamo ad essere buoni solo con qualcuno, con qualcuno che mi piace.
I saluti finali
“Santi e peccatori” siamo tutti fratelli amati “dallo stesso Padre”, prosegue il Pontefice assicurando che, “alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”, su “come abbiamo amato”: un amore non solo “sentimentale”, ma “compassionevole e concreto”. Nei saluti finali, il Papa rende omaggio alle popolazioni indigene indossando una stola “fatta da donne del popolo originario di una grande cultura”, i Wichì del Sud America; e cita tra gli altri gruppi presenti quello che sventola una bandiera panamense, a poche settimane dall’ultima Gmg; quello di lingua araba con i pellegrini provenienti da Siria, Libano e Medio Oriente, ricordando che “oggi ci sono molti dei nostri fratelli che nel mondo soffrono” e hanno “bisogno che lavoriamo per loro e che li ricordiamo nelle nostre preghiere”; e quello dei giornalisti di Askanews “che attraversano un momento di difficoltà”, ricorda che domani si celebra la festa dei Santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei popoli slavi e compatroni d’Europa.
Il loro esempio aiuti tutti noi a diventare in ogni ambiente di vita, discepoli e missionari, per la conversione dei lontani, come dei più vicini. Il loro amore per il Signore ci dia la forza per sostenere ogni sacrificio, affinché il Vangelo diventi regola fondamentale della nostra vita.
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