Meditazione dell’abate Gianni: ospitalità come scuola di misericordia
Debora Donnini – Città del Vaticano
E’ un forte invito all’accoglienza, all'ospitalità, quello che contraddistingue la meditazione che stamani l’abate di San Miniato al Monte di Firenze, padre Gianni, rivolge durante gli Esercizi spirituali al Papa e alla Curia Romana. Si parte da una riflessione sullo splendore di Gerusalemme, come descritto nel capitolo 62 del Libro del profeta Isaia. L’immagine della Gerusalemme che vi è descritta non è “una città ideale”, chiarisce il monaco, ma semmai “un ideale di città”.
Le porte aperte delle città
La riflessione dell’abate si concentra prima di tutto sulle porte aperte. “Passate, passate per le porte, sgombrate la via al popolo”, si legge infatti nel brano del profeta.
Bellissima è l’immagine di porte spalancate, perché tutta l’umanità vi possa finalmente accedere e incontrare, e sperimentare la grande promessa di Dio che si fa realtà, il futuro che si fa presenza di luce, di amore, di pace, e di giustizia, per tutti coloro che si incamminano verso il volto del Signore, guidati dalla sua Parola. Antitetica a questa prospettiva è la costruzione di ogni muro, di ogni muraglia, di ogni baluardo che non abbia dentro di sé una porta ospitale ed invitante.
Di “muri che imprigionano chi li costruisce”, parla in un saggio Roberto Mancini e, per il monaco olivetano, è qualcosa di cui era consapevole Giorgio la Pira che, memore dei versetti di Isaia “issate un vessillo per i popoli”, senz’altro ha desiderato che la sua città tornasse a essere “un vessillo di speranza” per l’intera umanità. “Questa memoria del sogno lapiriano” di una Firenze luogo di attrazione universale, che richiamasse “una misura alta e autenticamente evangelica della dignità di ogni condizione umana”, è evocata proprio dal poeta Mario Luzi, che invita ad attualizzarla “stringendoci la mano sugli spalti di pace, nel segno di San Miniato”. L’abate sottolinea quindi un paradosso: si tratta di un’abbazia circondata da mura - fatte costruire da Cosimo il Grande per difendere il suo ritorno in città dopo la breve parentesi della Repubblica fiorentina – che vengono trasformate in “spalti di pace” dal ritorno dei monaci dopo il necessario esilio. Una testimonianza che porta a schiudersi all’altro, all’ospite, al pellegrino “ma anche al potenziale nemico, a colui che le nostre paure trasformano in minaccia, in rischio”.
Ogni città luogo di accoglienza per rinnovare messaggio di pace e speranza
Per La Pira, come sindaco di Firenze, era quindi necessario che dalla città partisse “un messaggio sempre rinnovato di pace e di speranza”: “speranze di pace, speranze civili, speranze di Dio, e speranze dell’uomo”.
Il Santo Padre ci ha avvertito di come stiamo vivendo una Terza guerra mondiale a puntate, a frammenti laceranti in tante parti del Pianeta. E trovo bellissimo, profetico, ma anche profondamente attuale questo appello del sindaco a fare di Firenze, ma in realtà di ogni città, il luogo di accoglienza da cui si rinnovi un messaggio di pace e di speranza. Questo è un compito che il sindaco La Pira attribuisce al suo servizio di uomo politico, ma è un servizio che la Chiesa non può che caldeggiare, desiderare, proporre, di fatto testimoniare, nel nostro tempo ai sindaci e agli uomini politici di tutto il mondo. Perché la città davvero torni ad essere, secondo la prospettiva che Isaia ci fa sognare, un “vessillo per tutti i popoli”.
La preghiera alla base di una missione di pace
La Pira sapeva che Firenze poteva essere “una rinnovata e ritrovata capitale della pace e della giustizia” proprio grazie alla preghiera e alla contemplazione: “senza queste radici mistiche, a lei donate dai suoi monasteri di clausura e dai suoi santi, essa non sarebbe quella che è: città della contemplazione e della bellezza teologale”, rileva ancora padre Gianni. Il sindaco di fatto “chiama in causa ciascuno di noi”. “Come possiamo auspicare pace per il mondo intero se non invochiamo quello spirito di unità che ieri San Giovanni Paolo II ci ha ricordato necessario per custodire nelle nostre comunità ecclesiali il dono fragilissimo” e preziosissimo “della concordia, dell’unità, della fraternità e della pace”, si chiede il monaco. La Chiesa dunque deve essere fermento in questo senso.
Padre Gianni ricorda quindi la Lettera di Papa Francesco scritta a mons. Vincenzo Paglia, lo scorso febbraio, per il 25.mo della Pontificia Accademia per la Vita, dal titolo Humana communitas, nella quale si sottolinea che “il popolo cristiano, raccogliendo il grido delle sofferenze dei popoli, deve reagire agli spiriti negativi che fomentano la divisione, l’indifferenza e l’ostilità”. Si richiama quindi il n.1 di Lumen gentium. E l’abate parla quindi della “Chiesa seminata sulla terra come sacramento dell’intima unione con Dio, nella verticalità, ma anche l’orizzontalità auspicata e desiderata dal sogno creativo di Dio: l’unità di tutto il genere umano”. Per questo, l’abate olivetano apprezza che il Papa esorti ad una “Chiesa ospitale” anche per chi fatica ad aderire a tutto quello in cui crediamo, mossi però da un desiderio, da una inquietudine. La riabilitazione della creatura di Dio alla lieta speranza della sua destinazione deve diventare la passione dominante del nostro annuncio, ricorda padre Gianni evidenziando che “nessuno è escluso in questa prospettiva”. Quindi si sofferma sulla riapertura di un “orizzonte umanistico, anche in seno alla Chiesa”.
Un nuovo umanesimo radicato in Cristo
Papa Francesco esorta a domandarsi se si sia fatto abbastanza per offrire il nostro specifico contributo come cristiani ad una visione dell’umano, capace di sostenere l’unità della famiglia e dei popoli nelle odierne condizioni politiche e culturali o se addirittura “ne abbiamo perso di vista la centralità, anteponendo le ambizioni, della nostra egemonia spirituale sul governo della città secolare, chiusa su se stessa e sui suoi beni, alla cura della comunità locale, aperta all’ospitalità evangelica per i poveri e i disperati”. Due le parole su cui l’abate olivetano punta la sua attenzione: “cura” e “ospitalità”. Ed il Papa, sempre nella stessa Lettera per il 25.mo della Pav, mette in evidenza che le radici da cui può germogliare questo nuovo umanesimo sono nel mistero della redenzione della storia in Gesù Cristo:
Abbiamo bisogno di radicare in Cristo e nel suo amore il nostro sguardo di fede, la nostra visione. Un radicamento quello in Cristo che schiude il nostro piccolo cuore a dimensioni universali, come universale è il disegno salvifico del Padre celeste attraverso Gesù. Come sconfinato e universale è pur dalla piccolissima Firenze, lo sguardo e l’attenzione politica e cordiale del sindaco La Pira.
Quindi l’abate si sofferma sul “principio evangelico di prossimità” che, evocato da Pierangelo Sequeri, “invitandoci a superare una contrapposizione e talvolta di comodo fra sacro e profano, trova una sua singolare esemplarità” e “vocazione nel monastero benedettino”. Il pensiero dell’abate va anche alla processione del Corpus Domini, “una consuetudine bella, popolare talvolta trascurata”, rileva, che porta l’Eucaristia nel cuore delle città. Ma – esorta l’abate – questo non deve restare solo ritualità ma deve “fermentare in quella logica eucaristica di radicale donazione”. Si tratta di una città che il Signore ci affida per servirla, perché “non diventi come Sodoma il luogo inospitale dove i messi del Signore, gli angeli mandati a Lot sono fatto oggetto di orrende violenze”.
L’ospitalità di San Benedetto, non buonista ma lucida
Si richiamano quindi le parole sull’ospitalità di san Benedetto che esorta a ricevere tutti gli ospiti come se fosse Cristo ma dice che lo scambio del bacio di pace non deve essere offerto prima della preghiera. Avere un altro di fronte a me infatti comporta dei rischi. Pertanto quella di San Benedetto – mette in rilievo l’abate - non è un “un’ospitalità, si direbbe oggi buonista, è un’ospitalità lucida ma che accetta il rischio evangelico dell’amore e corrobora l’uomo che si espone a questo rischio con l’unica forza che il credente ha e cioè la preghiera”. Ripercorrendo ancora le istruzioni sull’accoglienza degli ospiti, l’abate rileva come questa sia segnata dalla preghiera e da un profondo senso di umanità. L’abate e tutta la comunità lavano i piedi a ciascuno degli ospiti. Nell’arrivo dell’ospite si ravvisa dunque un grande dono che la misericordia del Signore ci fa per convertirci da ogni nostro ripiegamento autoreferenziale, per generare l’inquietudine con la quale donarci agli altri. Il richiamo è anche al Vangelo di Matteo, capitolo 25.
Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e d’altra parte - qui San Benedetto è quasi ironico – l’imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé. Chiarissimo, credo non ci sia molto da aggiungere se non sottolineare quale grazia pasquale sia con tutte le difficoltà, le responsabilità, la fatica. Benedetto ce lo sta dicendo, si tratta di perdere tempo per gli ospiti, lo avete ascoltato. Leggere con loro, dare loro da mangiare, lavare i piedi, lavare le mani. E’ tempo che va via, questo è vero, ma è la misericordia del Signore che ci visita e dunque l’ospitalità è un evento pasquale.
Ospitalità come scuola di misericordia
Viene quindi ricordato che San Benedetto, in ritiro assoluto all’inizio della sua vita monastica, si dimenticò che fosse arrivato il giorno di Pasqua. Il Signore gli mandò un prete con del cibo e dell’acqua perché interrompesse digiuno e solitudine.
Quando Benedetto vede arrivare questo ospite, la sua espressione ci dà la misura di quale evento di mistero sia l’arrivo dell’ospite: "E’ davvero Pasqua perché ho avuto la grazia di vederti”. Un passaggio dalla solitudine alla comunione, dal digiuno alla gioia fraterna della condivisione, dalla morte alla vita. Ecco perché l’ospitalità è scuola di misericordia, così tanto da far dire a Bernardo di Clairvaux: “Il misericordioso coglie la verità del suo prossimo conformandosi a lui con simpatia, così da vivere le sue gioie e i suoi dolori come se fossero i propri, debole con i deboli, pronto a gioire con coloro che sono felici e a piangere con coloro che piangono.
Una testimonianza resa anche monaci martiri di Tibhirine:
C’è una presenza del Dio fra gli uomini – proseguiva frère Christian – che proprio noi dobbiamo assumere. Essere testimoni dell’Emmanuele, del Dio con. È in questa prospettiva che cogliamo, scriveva frère Christian, la nostra vocazione ad essere una presenza fraterna di uomini e donne che condividono la vita di musulmani, di algerini, nella preghiera, nel silenzio, nell’amicizia. Le relazioni Chiesa-Islam balbettano ancora perché non abbiamo ancora vissuto abbastanza accanto a loro. Dio ha tanto amato gli uomini che ha dato loro il suo Figlio, la sua Chiesa, ciascuno di noi. Non c’è amore più grande che dà la vita per i propri amici.
Fare nostra la logica di Gesù
In conclusione, l’abate esorta a imparare da un’ospitalità radicalmente evangelica. “Ci risuonano ancora - dice - le parole già ricordate di Papa Francesco in cui la forza della fraternità, che l’adorazione di Dio in spirito e verità genera fra gli umani, è la nuova frontiera del cristianesimo”.
Ogni dettaglio della vita del corpo e dell’anima, in cui lampeggiano l’amore e il riscatto della nuova creatura che si fa formando in noi, sorprende, come il vero e proprio miracolo di una Risurrezione già in atto. Il Signore ci doni di moltiplicare questi miracoli. E li potremo moltiplicare nella misura in cui facciamo nostra la logica, apparentemente perdente, dell’amore del Signore Gesù, che è una logica – non ce lo dimentichiamo – inevitabilmente crocifissa, perché si generi la Pasqua come bacio dello Spirito Santo con il quale il Padre restituisce pienezza di vita a ciò che reciso e tagliato. Ed è davvero l’auspicio di una Chiesa che, come la grande cattedrale che Mario Luzi canta in Opus Florentinum, ha le porte perennemente aperte, perché tutti, passandoci, sentano vivo il respiro incessante di quel soffio evangelico che lo Spirito Santo, nonostante le nostre resistenze, fa attraversare nel cuore di ciascuno di noi.
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