Padre Cantalamessa: gli idoli hanno cambiato nome, ma sono più che mai presenti
Barbara Castelli – Città del Vaticano
“La vera impresa della vita” è “la nostra conversione”, sradicando ogni forma di idolatria. Così padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, durante la terza predica di Quaresima, alla presenza di Papa Francesco e dei membri della Curia Romana. Il cappuccino precisa che occorre “un soprassalto di coscienza”, riconoscendo che la “battaglia contro l’idolatria non è purtroppo terminata con la fine del paganesimo storico”, ma “è sempre in atto”: “gli idoli hanno cambiato nome, ma sono più che mai presenti”.
Il “vitello d’oro” che si annida dentro di noi
Nella cappella Redemptoris Mater, padre Raniero Cantalamessa ricorda che è stato san Paolo a fare l’analisi “più lucida e più profonda” dell’idolatria. L’Apostolo mette a fuoco “la situazione dell’umanità prima di Cristo e fuori di lui”, individua, in altre parole, “da dove parte il processo della redenzione”: non “da zero, dalla natura, ma da sottozero, dal peccato”. In un mondo diviso in due categorie, “Greci e Giudei”, cioè “pagani e credenti”, san Paolo individua “il peccato fondamentale” dei primi “nell’empietà e nella ingiustizia”.
In che consiste, esattamente, tale empietà, l’Apostolo lo spiega subito, dicendo che essa consiste nel rifiuto di “glorificare” e di “ringraziare” Dio. In altre parole, nel rifiuto di riconoscere Dio come Dio, nel non tributare a lui la considerazione che gli è dovuta. Consiste, potremmo dire, nell’“ignorare” Dio, dove, però, ignorare non significa tanto “non sapere che esiste”, quanto “fare come se non esistesse”.
L’illusione delle persone pie e religiose
L’Apostolo, spiega il predicatore della Casa Pontificia, “ha sperimentato egli stesso questo shock, quando, da fariseo, divenne cristiano, e perciò può ora parlare con tanta sicurezza e additare ai credenti la strada per uscire dal fariseismo”.
Egli smaschera la strana e frequente illusione delle persone pie e religiose di ritenersi al riparo dalla collera di Dio, solo perché hanno una chiara idea del bene e del male, conoscono la legge e, all’occasione, la sanno applicare agli altri, mentre, quanto a se stessi, essi pensano che il privilegio di stare dalla parte di Dio o, comunque, la “bontà” e la “pazienza” di Dio, che conoscono bene, faranno un’eccezione per loro.
“Dall’ascolto di questa parola di Paolo si esce o convertiti o induriti”: o si comprende pienamente la propria condizione di peccatori o il cuore si indurisce ulteriormente e “si rafforza la impenitenza”.
Le nuove forme di idolatria e la conversione
“C’è un’idolatria nascosta che insidia l’uomo religioso”, insiste il cappuccino, quando quest’ultimo adora “l’opera delle proprie mani”, mettendo “la creatura al posto del Creatore”. E la creatura “può essere la casa o la chiesa che costruisco, la famiglia che creo, il figlio che ho messo al mondo”.
Al fondo di ogni idolatria c’è l’autolatria, il culto di sé, l’amor proprio, il mettere se stesso al centro e al primo posto nell’universo, sacrificando a esso tutto il resto. Basta che impariamo ad ascoltarci mentre parliamo per scoprire come si chiama il nostro idolo, poiché, come dice Gesù, “la bocca parla di ciò che abbandona nel cuore” (Mt 12, 34). Ci accorgeremmo di quante nostre frasi cominciano con la parola “io”.
“Il risultato è sempre l’empietà, il non glorificare Dio, ma sempre e solo se stessi”. “Molti alberi di alto fusto hanno il fittone”, aggiunge padre Raniero Cantalamessa per fissare il concetto in un’immagine, “una radice madre che scende a perpendicolo sotto il fusto e rende la pianta salda e irremovibile”: “finché non si mette la scure a quella radice, si possono recidere tutte le radici laterali, ma l’albero non cade”. Dunque, se il peccato “è consistito in un ripiegamento su se stessi”, “la conversione più radicale consiste nel ‘raddrizzarci’ e ri-volgerci a Dio”.
Se mi schiero con tutto me stesso dalla parte di Dio, contro il mio “io”, divento suo alleato; siamo in due a combattere contro lo stesso nemico e la vittoria è assicurata. Il nostro io, come un pesce tirato fuori dalla sua acqua, può guizzare ancora e dimenarsi per un po’, ma è destinato a morire. Non è però un morire, ma un nascere.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui