Mons. Giulietti: con il Sinodo un grande lavoro di ascolto dei giovani
Marco Guerra – Città del Vaticano
“È dovere della Chiesa raggiungere tutti”. Alla luce dell'odierna pubblicazione dell’Esortazione “Chritus Vivit”, il vescovo di Lucca mons. Paolo Giulietti, ha riferito a VaticanNews dell’impegno dei vescovi e delle diocesi italiane che hanno accompagnato il lavoro del Sinodo sui giovani.
La Chiesa deve mettere in atto “iniziative pastorali capaci dialogare con il mondo giovanile”, ha spiegato mons. Giulietti, che è stato dal 2001 al 2007 direttore dell’Ufficio Nazionale di pastorale Giovanile presso la Conferenza Episcopale Italiana; incarico con cui ha coordinato l'organizzazione italiana delle Giornate Mondiali delle Gioventù del 2002 a Toronto e del 2005 a Colonia, e ha inoltre contribuito alla realizzazione dell'Incontro nazionale dei giovani a Loreto. Il presule ha inoltre parlato della cura pastorale dei giovani da parte di tutta la comunità, delle sfide derivanti dall’individualismo e dell’ascolto che ha portato a “nuovi canali di comunicazione”
R. – Dobbiamo ricordare innanzitutto, l’anno scorso, questo impegno di ascolto del mondo giovanile in preparazione allo svolgimento dell’Assemblea sinodale. In molte diocesi ci sono state iniziative che hanno portato i vescovi ad incontrare i giovani nelle scuole, nelle università, nei luoghi di aggregazione. Ci sono state davvero molte opportunità di incontro con il mondo dei giovani, vicini, ma soprattutto – direi – lontani dal mondo ecclesiale. E questo ascolto – immagino – abbia portato dei frutti dal punto di vista della possibilità di aprire dei canali di comunicazione con ambienti e spazi di vita dei giovani finora non toccati, non raggiunti, dall’azione della comunità ecclesiale”:
Anche nel Vangelo ci sono giovani attenti e altri distratti, ma la Parola è rivolta a tutti. Si possono destare anche i cuori più lontani ed inariditi?
R. – Innanzitutto è dovere della Chiesa parlare a tutti e raggiungere tutti. Il compito non è quello di convertire, ma di annunciare. Poi, l’esito dell’incontro con la Parola è sempre imprevedibile, ma la Chiesa ha il compito di non lasciare nessuno fuori dalla possibilità di essere raggiunti dall’annuncio del Vangelo. Ben vengano quindi le iniziative che portano i vescovi, ma anche gli altri operatori pastorali, a incrociare ambienti circostanti della vita dei giovani finora non toccati da questa presenza.
Gesù era un giovane e Maria era giovanissima quando, con il suo “sì”, ha saputo rischiare. Quindi la Chiesa è giovane o non lo è?
R. – Maria era sicuramente giovane ma Gesù sicuramente no per i parametri del suo tempo: misuriamo la giovinezza con la nostra categoria del mondo occidentale, che già non funziona per gli altri emisferi. Ciò non toglie però che la Chiesa debba essere giovane nel senso della disponibilità ad assumere linguaggi, modi di fare, iniziative pastorali capaci di intercettare, metterti in dialogo, con il mondo giovanile. La Chiesa ha quindi questa vocazione, animata dallo Spirito, di trovare sempre canali nuovi, inediti, per raggiungere generazioni che hanno modalità di comunicare, pensare ed agire diverse da quelle passate.
Servirebbe una preparazione al passaggio all’età adulta?
R. – L’estensione della giovinezza in parte è funzionale a un mondo sempre più complesso e bisognoso di una formazione “lunga” potremmo dire, cosa che le società semplici del passato non avevano. Però si è andati oltre questa funzionalità e si sta configurando un problematico passaggio all’età adulta, in ragione della precarietà del mondo del lavoro, della difficoltà di scelte di vita permanenti, e quindi tutti, nella Chiesa ma penso anche fuori di essa, si stanno domandando come facilitare davvero la fine di questa giovinezza così tanto prolungata, e fare in modo che si possa facilitare questa transizione all’età adulta che mette in condizione una persona di dare un apporto alla società attraverso la sua scelta professionale, familiare, la sua decisione di mettere al mondo dei figli, che in Occidente è quanto mai necessario.
La comunità è una prospettiva fondamentale per la pastorale giovanile. Come si può aiutare un giovane affinché la sua fede non rimanga un'esperienza vissuta nel privato?
R. – La comunità è importante su due versanti. In primo luogo, essa deve tornare ad essere soggetto. Penso che il Sinodo abbia posto fortemente l’esigenza di superare una pastorale giovanile settoriale per rimettere in mano la cura dei giovani a tutta la comunità cristiana, che si può servire di luoghi e persone specializzate, però non può delegare in toto a questi luoghi e persone il compito di educare i giovani alla fede e alla maturità umana. Quindi la comunità deve tornare ad essere vero soggetto, investendo nel rapporto con i giovani le migliori energie e anche coinvolgendo in questo rapporto tutti i “settori” della sua azione pastorale. Dall’altra parte, è importante che i giovani si sentano accolti in una comunità e vivano la fede come fatto comunitario, perché l’individualizzazione della fede, come anche di altri aspetti della vita, sicuramente è un elemento culturale molto problematico che rende difficile vivere in maniera piena tanti aspetti della vita cristiana e della vita in generale.
I giovani non possono isolarsi quindi: devono contaminare la società e non lasciarsi contaminare dall’individualismo e dalle ideologie mortifere?
R. – Sì, sicuramente è in atto una pesante colonizzazione ideologica molto insidiosa perché mascherata. Molto insidiosa perché non ha più l’abito delle ideologie, chiaramente riconoscibili, ma perché ha altri abiti: della cultura musicale, di quella dei Social, della cultura del consumismo, che non si configurano e non si fanno riconoscere facilmente. Non sono facilmente smascherabili anche perché si presentano normalmente con la veste della libertà, del rispetto della persona, dell’offerta di opportunità interessanti. Allora però hanno effetti molto incisivi e deleteri per quello che riguarda la crescita dei giovani in alcuni aspetti della vita: pensiamo per esempio alla vita affettiva, fortemente condizionata dai messaggi che i ragazzi ricevono sin dall’età più tenera, rispetto a rapporti tra persone e sul piano dell’affettività. Allora, è necessario che questa colonizzazione ideologica venga conosciuta, smascherata, e che i ragazzi siano accompagnati ad usare della tecnologia e di tutto quello che attraverso di essa passa in maniera responsabile e soprattutto critica; certamente non chiudendosi e non demonizzando nulla, però essendo molto consapevoli che la potenza dei mezzi di comunicazione, inedita, che oggi abbiamo a disposizione, pone rischi inediti e chiede responsabilità molto più serie e informate del passato.
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