Don Nastasi: parole Papa a Lampedusa sempre attuali
Fabio Colagrande - Città del Vaticano
Don Stefano Nastasi è stato parroco di San Gerlando a Lampedusa per sei anni, dal 2007 al 2013, nel periodo cruciale degli sbarchi più drammatici e dei naufragi in cui persero la vita centinaia di persone. Fu lui, sei anni fa, con una lettera, ad invitare Papa Francesco nell’isola siciliana descritta in quel testo come “cuore del Mediterraneo”, “naturale crocevia di popoli”, “abitata da una comunità capace di farsi carico di gesti ascrivibili all’esercizio premuroso dell’incontro con l’altro”. Oggi, don Stefano è parroco a Sciacca, sempre nella diocesi di Agrigento, e lunedì 8 luglio ha seguito con emozione dalla Sicilia la celebrazione presieduta dal Papa nel VI anniversario di quel viaggio. Ecco le sue riflessioni al microfono di Radio Vaticana Italia.
R. - Sicuramente è molto bello il fatto che questa celebrazione non sia soltanto un ricordo ma un invito a rivivere la visita dei sei anni fa come segno di condivisione del dolore e della sofferenza dell’umanità. Fu questo il significato della celebrazione del 2013 e credo sia lo stesso nella giornata di oggi.
Come nacque quella visita del Papa di sei anni fa?
R. - La visita nacque con molta semplicità. Dopo l’elezione di Papa Francesco abbiamo pensato che essendo lui figlio di emigrati poteva meglio comprendere quello che noi vivevamo sull’isola di Lampedusa in relazione al fenomeno dell’immigrazione. Da lì è nata una lettera molto semplice, augurale, nella quale lo invitavamo a visitare l’isola e ad aiutarci a condividere quel peso con tutta la Chiesa. Nasce da lì la visita di allora. Sicuramente era la sintesi di un bisogno che non era solo dell’isola o degli isolani, ma credo di tutto il Mediterraneo. Quello di far conoscere, e aiutare a condividere anche con gli altri, questa realtà che pesava per la maggior parte sui deboli di Lampedusa.
Quali parole del Papa la colpirono particolarmente quel giorno?
R. - Sicuramente la questione del pianto, la sua domanda sul chi aveva davvero pianto per i morti nel Mediterraneo. Sono quelle le parole che mi fecero riflettere, sia durante l’omelia che dopo. Quelle parole per noi avevano però un significato ben diverso, perché la nostra comunità, nelle singole persone, ma anche nell’espressione comune, aveva davvero sperimentato il pianto e quindi la condivisone del dolore con chi era nella sofferenza. Erano parole che interrogavano soprattutto chi rimaneva nell’indifferenza, chi da lontano magari non riusciva a percepire quell’enorme mole di dolore che attraversava l’isola già negli anni precedenti, così come avviene oggi.
Quelle parole del Papa sulla “globalizzazione dell’indifferenza” sono tragicamente ancora attuali …
R. - Sì, forse ora sono più attuali di allora. Sono parole che sintetizzano molto bene quella che è la nostra realtà. Una realtà apparentemente serena, tranquilla, che nasconde però questa sacca di indifferenza nei confronti di ciò che potrebbe sconvolgere la nostra quotidianità se solo ne prendessimo atto e consapevolezza. Invece, continuiamo così nella corsa quotidiana, presi dalla bellezza esteriore senza mai arrivare a cogliere l’essenzialità della vita. Siamo presi dal fascino di un manifesto pubblicitario, come abbagliati, e non vediamo il caos che ci circonda. Mi pare l’immagine più adatta per descrivere la nostra situazione.
Nel Mediterraneo continuano a navigare barconi pieni di migranti. In Italia e Europa si litiga su chi deve accoglierli. Lei, come sacerdote, quale pensa sia il ruolo dei cattolici in questo momento?
R. - Penso che i poveri siano sempre stati un problema, nel passato come nel presente. Sicuramente è una realtà – quella dell’immigrazione – molto complessa perché conosce dei mutamenti continui - la verità è anche questa – e che quindi ha bisogno di un monitoraggio costante e di risposte diverse nel tempo. Non è semplicissimo. Sarebbe un’illusione pensare che tutto è semplice, che tutto è facile. Quando c’è un problema, quando ci sono delle fragilità, la povertà, le sofferenze, diventa sempre un peso per tutti. Però non è evangelico né scaricare su altri questo peso né lasciare da soli coloro che sono chiamati a portarlo. Penso che la regola debba essere quella del Vangelo, quella della condivisione. C’è un riferimento che vale sempre. È un versetto della Lettera di Paolo ai Romani quando dice: “Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi”, l’importanza cioè della condivisione dei pesi. Se si entra in questa ottica, in questa logica, allora tutto diventa un po’ più semplice. Diversamente, se si va a incrementare l’isolamento, la solitudine, si fanno aumentare le paure, gli egoismi e di conseguenza anche gli atteggiamenti di indifferenza e contrapposizione.
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