Il Papa chiude il Sinodo: il grido dei poveri è grido di speranza della Chiesa
Alessandro Di Bussolo – Città del Vaticano
Per praticare la “religione di Dio” e non quella “dell’io” dobbiamo riconoscerci poveri dentro, bisognosi di misericordia e “frequentare i poveri, per ricordarci che solo nella povertà interiore agisce la salvezza di Dio”. Nel Sinodo per l’Amazzonia “abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri”, il loro grido, che “è il grido di speranza della Chiesa”. Facendolo nostro, “anche la nostra preghiera attraverserà le nubi” e salirà dritta a Dio. Sono le parole di Papa Francesco nell’omelia della Santa Messa di chiusura dell’assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per la Regione Panamazzonica, concelebrata nella Basilica di san Pietro con i 184 padri sinodali e molti degli uditori, degli esperti e degli invitati speciali.
Guida la processione l'indigena con la pianta dell'Amazzonia
La processione iniziale è aperta da un’uditrice indigena, che porta un vaso con terra e piantine dell’Amazzonia, che poi porterà all’altare all’offertorio, e da uditori, esperti e invitati laici e religiosi non sacerdoti, e chiusa dal Papa che utilizza il pastorale donato dai partecipanti al Sinodo. Nell’omelia Francesco evidenzia, nella Parola del giorno, le preghiere di tre personaggi: il fariseo e il pubblicano nella parabola di Gesù del Vangelo, il povero nella prima Lettura.
La preghiera del fariseo, che non ama né Dio, né il prossimo
Nel brano del Vangelo di Luca, ricorda il Pontefice, il fariseo prega nel tempio ringraziando il Signore “perché non sono come gli altri uomini” e si vanta “perché adempie al meglio precetti particolari”. Ma “dimentica il più grande: amare Dio e il prossimo”. Traboccante “dei propri meriti e delle proprie virtù, è centrato solo su di sé. Il dramma di questo uomo è che è senza amore”
E senza amore, qual è il risultato? Che alla fine, anziché pregare, elogia se stesso. Infatti al Signore non chiede nulla, perché non si sente nel bisogno o in debito, ma in credito. Sta nel tempio di Dio, ma pratica la ‘religione dell’io’. E tanti gruppi illustri di cristiani, cattolici, vanno su questa strada.
Oggi chi sta davanti alza muri per tenere a distanza "gli scarti"
“E oltre a Dio - commenta Papa Francesco - dimentica il prossimo, anzi lo disprezza: per lui, cioè, non ha prezzo, non ha valore”. Si ritiene infatti migliore degli altri, che per lui sono “rimanenze”, “scarti da cui prendere le distanze”. E’ una dinamica, sottolinea il Papa, tante volte “in atto nella vita e nella storia”, quando chi sta davanti, come il fariseo rispetto al pubblicano, “innalza muri per aumentare le distanze, rendendo gli altri ancora più scarti. Oppure, ritenendoli arretrati e di poco valore, ne disprezza le tradizioni, ne cancella le storie, ne occupa i territori, ne usurpa i beni”.
Quante presunte superiorità, che si tramutano in oppressioni e sfruttamenti, anche oggi! L’abbiamo visto al Sinodo, quando parlavamo dello sfruttamento del Creato, della gente, degli abitanti dell’Amazzonia, della tratta delle persone, del commercio delle persone! Gli errori del passato non son bastati per smettere di saccheggiare gli altri e di infliggere ferite ai nostri fratelli e alla nostra sorella terra: l’abbiamo visto nel volto sfregiato dell’Amazzonia.
Alcuni che vanno a Messa sono sudditi della religione dell'io
“Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica – chiarisce Francesco - sono sudditi di questa religione dell’io”. Guardiamoci dentro, è il suo invito, per “vedere se anche per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole”. E preghiamo “per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi. Chiediamo a Gesù di guarirci dal parlare male e dal lamentarci degli altri, dal disprezzare qualcuno: sono cose sgradite a Dio”. E ringrazia Dio per la presenza, alla celebrazione, in primo piano, non solo degli aborigeni dell’Amazzonia, ma anche dei più poveri delle società sviluppate, “fratelli e sorelle ammalati della comunità dell’Arche”.
La preghiera del pubblicano: si sente povero, si fa guardare da Dio
Il Pontefice analizza poi la preghiera del pubblicano, che “non comincia dai suoi meriti, ma dalle sue mancanze; non dalla sua ricchezza, ma dalla sua povertà”. Non economica, perché i pubblicani erano ricchi, guadagnando iniquamente dai connazionali, ma di vita, perché “nel peccato non si vive mai bene”. Ma il pubblicano si riconosce povero, ricorda Papa Francesco, “il Signore ascolta la sua preghiera, fatta di sole sette parole ma di atteggiamenti veri”. Infatti non sta in piedi davanti a Dio, ma a distanza, senza osare “alzare gli occhi al cielo” troppo grande per lui che “si sente piccolo”. E si batte il petto, “perché nel petto c’è il cuore”
La sua preghiera nasce dal cuore, è trasparente: mette davanti a Dio il cuore, non le apparenze. Pregare è lasciarsi guardare dentro da Dio senza finzioni, senza scuse, senza giustificazioni. Fanno ridere i pentimenti pieni di giustificazioni, sembrano quasi un’auto-causa di canonizzazione. Perché dal diavolo vengono opacità e falsità, queste sono giustificazioni, da Dio luce e verità, la trasparenza del mio cuore. È stato bello e ve ne sono tanto grato, cari Padri e Fratelli sinodali, aver dialogato in queste settimane col cuore, con sincerità e schiettezza, mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze.
Chiediamo la grazia di sentirci poveri, bisognosi di misericordia
Guardando al pubblicano, chiarisce il Papa “riscopriamo da dove ripartire: dal crederci bisognosi di salvezza, tutti”. Questo “è il primo passo della religione di Dio, che è misericordia verso chi si riconosce misero”. Perché “la radice di ogni sbaglio spirituale, come insegnavano i monaci antichi, è credersi giusti, e lasciare Dio, l’unico giusto, fuori di casa”. Un atteggiamento di partenza fondamentale, commenta Francesco, che Gesù ci mostra mettendo insieme “la persona più pia e devota del tempo, il fariseo, e il peccatore pubblico per eccellenza, il pubblicano. E il giudizio si capovolge: chi è bravo ma presuntuoso fallisce; chi è disastroso ma umile viene esaltato da Dio”. E in noi “se ci guardiamo dentro con sincerità” commenta il Pontefice, vediamo sia il pubblicano che il fariseo.
La preghiera del povero: sale a Dio, attraversando le nubi
L’ultima preghiera proposta dalle Letture della domenica è quella del povero, nel Libro del Siracide, che sale dritta a Dio, attraversando le nubi, “mentre la preghiera di chi si presume giusto rimane a terra, schiacciata dalla forza di gravità dell’egoismo”. Questo perché, spiega Papa Francesco “il senso della fede del Popolo di Dio ha visto nei poveri ‘i portinai del Cielo’: quel sensus fidei che mancava nella Dichiarazione finale. Sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. Essi sono icone vive della profezia cristiana”.
In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite, minacciate da modelli di sviluppo predatori. Eppure, proprio in questa situazione, molti ci hanno testimoniato che è possibile guardare la realtà in modo diverso, accogliendola a mani aperte come un dono, abitando il creato non come mezzo da sfruttare ma come casa da custodire, confidando in Dio.
Quando la Chiesa non ascolta le voci dei poveri, perché scomode
Quante volte, anche nella Chiesa, lamenta in conclusione il Papa, “le voci dei poveri non sono ascoltate e magari vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera attraverserà le nubi”.
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