Francesco ai giuristi: no a sentenze che esaudiscono desideri sempre nuovi

In udienza dal Papa, i partecipanti al V Congresso del Centro Studi Rosario Livatino. Il giovane giudice ucciso dalla mafia nel '90, sottolinea Francesco, aveva già colto la crisi del potere giudiziario: "la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti nuovi diritti"

Emanuela Campanile - Città del Vaticano

Il quinto convegno nazionale del Centro studi Rosario Livatino, che si svolgerà oggi pomeriggio presso il Senato della Repubblica, affronta un tema di stringente attualità espresso senza mezzi termini già dal titolo: "Magistratura in crisi. Percorsi per ritrovare la giustizia". Ed è ai partecipanti al convegno - giuristi, magistrati, avvocati, docenti universitari e notai - che Papa Francesco rivolge le sue parole durante l’udienza di questa mattina a loro dedicata. Ripercorrendo la vita e il pensiero del giovane magistrato, ucciso dalla mafia la mattina del 21 settembre ’90 e per il quale si è concluso positivamente il processo diocesano di beatificazione, il Pontefice ricorda:

Quando Rosario fu ucciso non lo conosceva quasi nessuno. Lavorava in un Tribunale di periferia: si occupava dei sequestri e delle confische dei beni di provenienza illecita acquisiti dai mafiosi. Lo faceva in modo inattaccabile, rispettando le garanzie degli accusati, con grande professionalità e con risultati concreti: per questo la mafia decise di eliminarlo.

Eutanasia

Francesco riprende due considerazioni espresse dal “magistrato bambino”, come veniva soprannominato, oggi più attuali che mai: l’eutanasia e “lo statuto morale di chi è chiamato ad amministrare la giustizia”. “Considerazioni – sottolinea il Papa – che sembrano distanti dalle sentenze che, in tema di diritto alla vita, vengono talora pronunciate nelle aule di giustizia, in Italia e in tanti ordinamenti democratici”:

In una conferenza, riferendosi alla questione dell’eutanasia, e riprendendo le preoccupazioni che un parlamentare laico del tempo aveva per l’introduzione di un presunto diritto all’eutanasia, egli faceva questa osservazione: «Se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana […] è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare o interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire, dal momento che essa appartiene alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire» (Canicattì, 30 aprile 1986, in Fede e diritto, a cura della Postulazione).

Lo statuto morale dei magistrati

Ricordando che per Rosario Livatino chi amministra la giustizia “altro non è che un dipendente dello Stato al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni”, Francesco mette in evidenza come oggi si stia sempre più affermando una diversa chiave di lettura del ruolo del magistrato, secondo la quale quest’ultimo, «pur rimanendo identica la lettera della norma, possa utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si attaglia al momento contingente». (Canicattì, 7 aprile 1984, in Il ruolo del Giudice nella società che cambia, a cura della Postulazione).

La crisi del potere giudiziario

Sorprendente, dunque, l’attualità del pensiero del giudice siciliano che, secondo Francesco, ha colto “i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti” e non solo in Italia, cioè “la giustificazione dello sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti ‘nuovi diritti’, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”.

“Rosario Livatino ha lasciato a tutti noi un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare”

La giustizia esige sapienza e umiltà

C’è un altro versante affrontato da Livatino e che non sfugge certo al Papa osservando “la crisi del potere giudiziario”:

Livatino ha testimoniato quanto la virtù naturale della giustizia esiga di essere esercitata con sapienza e con umiltà, avendo sempre presente la «dignità trascendente dell’uomo», che rimanda «alla sua natura, alla sua innata capacità di distinguere il bene dal male, a quella “bussola” inscritta nei nostri cuori e che Dio ha impresso nell’universo creato» (Discorso al Parlamento Europeo: Insegnamenti di Francesco II, 2 [2014], 626).

Un esempio luminoso

Sulla costruzione del rapporto tra Dio e il magistrato credente, il Papa cita ancora parole del giovane giudice, nelle quali lo stesso Pontefice dice di ritrovarsi:

Mi ritrovo molto in un’altra riflessione di Rosario Livatino, quando afferma: «Decidere è scegliere […]; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto, per il tramite dell’amore verso la persona giudicata.[…].

Un compito, prosegue il Pontefice, che sarà “tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione”. Indispensabile l’umiltà, certo, ma anche la concordia “il legame - come lo definisce il Papa - tra gli uomini liberi che compongono la società civile”. E a contribuire alla costruzione della concordia, rimane fondamentale l’impegno dei giuristi chiamati ad approfondire “le ragioni della coerenza fra le radici antropologiche, l’elaborazione dei principi e le linee di applicazione nella vita quotidiana”.

“Dopo la morte di Livatino, in più di uno dei suoi appunti veniva trovata a margine una annotazione, che all’inizio suonava misteriosa: “S.T.D.”. Presto si scoprì che era l’acronimo che attestava l’atto di affidamento totale che Rosario faceva con frequenza alla volontà di Dio: S.T.D. sono le iniziali di sub tutela Dei”

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29 novembre 2019, 11:31