Incontrare il popolo, Francesco e le udienze generali
Alessandro Gisotti
Centottantanove. Tanti sono i giorni che separano l’ultima udienza generale con i fedeli in Piazza San Pietro, il 26 febbraio scorso, da quella che si svolgerà il 2 settembre nel Cortile di San Damaso del Palazzo Apostolico. Un tempo lungo, sembrato perfino più lungo, perché le udienze generali grazie alle catechesi e forse ancora di più ai gesti e ai “fuori programma” di Francesco sono diventate un appuntamento atteso e seguito non solo dai fedeli cattolici, ma pure da tanti che, anche se lontani dalla Chiesa, si sono messi in ascolto del Papa. Come nel caso delle Messe mattutine a Casa Santa Marta, anche le udienze generali - oltre trecento ormai - si caratterizzano innanzitutto per l’incontro con il Popolo di Dio. Quello è il cuore. Tanto sono brevi le omelie, pronunciate nelle Messe del mattino, quanto brevi sono le catechesi delle udienze generali spesso arricchite da aggiunte a braccio e non di rado da dialoghi con l’uditorio presente. “Se si legge – ha del resto affermato una volta - non si può guardare la gente negli occhi”.
Francesco dedica invece un tempo lungo, a volte sorprendentemente lungo, all’incontro con le persone e in particolare con i più deboli, i malati, i sofferenti. Gli ultimi diventano i primi. Alcuni di questi incontri, per il messaggio che ne è scaturito, hanno travalicato la sfera della relazione individuale per assumere un valore universale. E’ il caso dell’abbraccio del Papa a Vinicio, un uomo sfigurato da una terribile malattia, la neurofibromatosi, al termine dell’udienza generale del 6 novembre 2013. Le immagini di quel momento in Piazza San Pietro hanno fatto il giro del mondo testimoniando, più di mille parole, cosa intenda Francesco quando chiede a tutti i cristiani, nessuno escluso, di toccare in chi soffre le piaghe di Cristo. Nelle udienze generali non si può in effetti separare la parola dal gesto del Papa perché la prima è la premessa del secondo che, a sua volta, la rafforza e la rende tangibile. Così come nel vedere il Pastore con le sue pecore, quasi un tutt’uno con il suo gregge, si comprende che non si può separare il singolo fedele dalla comunità ecclesiale. “Nella Chiesa – sottolinea Francesco proprio in una udienza generale, quella del 25 giugno 2014 – non esiste il fai da te, non esistono battitori liberi”, perché “essere cristiano significa appartenenza alla Chiesa. Il nome è cristiano, il cognome è appartenenza alla Chiesa”.
Altrettanto significativo è il linguaggio utilizzato nelle udienze del mercoledì, in sintonia con quanto accade nelle omelie di Santa Marta. Il Papa si sofferma infatti sui temi centrali della vita cristiana ricorrendo sempre a un linguaggio semplice e comprensibile a tutti che coglie l’essenziale della fede in Gesù Cristo. In un tempo segnato dall’analfabetismo religioso, il Papa si fa “catechista” e spiega in modo diretto, senza subordinate concettuali, perché l’incontro con il Signore cambia la vita e ci apre ad una speranza che non muore mai. In questi sette anni e mezzo, d’altro canto, i cicli delle sue catechesi hanno abbracciato uno spazio molto ampio: dai Sacramenti alla Misericordia, dall’Eucaristia ai Comandamenti, e Francesco non ha mancato di offrire le sue meditazioni anche su questioni fondamentali del vissuto quotidiano: dalla famiglia alla pace, dal richiamo ad un’economia giusta e solidale all’ultimo ciclo di catechesi, iniziato il 5 agosto scorso, incentrato sul tema “Guarire il mondo”.
Il Papa sa che la Chiesa non ha “ricette” pronte per uscire dalla crisi, ma – con queste ultime riflessioni – vuole condividere con tutte le persone di buona volontà uno sguardo cristiano per affrontare le questioni che la pandemia ha messo in rilievo, soprattutto le “malattie sociali”, un virus perfino più arduo da sconfiggere del Covid 19. Sicuramente, seppur in un contesto e con modalità inedite, l’incontro con la gente, con il Popolo di Dio di cui, tante volte ha confidato, sente di aver bisogno lo aiuterà a donarci una prospettiva di speranza, di guarigione e rinnovamento. Una prospettiva che muove dalla convinzione, espressa nella Statio Orbis del 27 marzo scorso, che “nessuno si salva da solo” e che dunque solo camminando insieme, solo sentendosi gli uni fratelli degli altri, potremo uscire migliori da questo tempo di prova.
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