La compassione e la forza delle lacrime
Gianluca Biccini - Città del Vaticano
Una testimonianza di misericordia e di compassione da parte di un vero uomo di Dio nei confronti di un popolo che nonostante le tante sofferenze non perde mai la sua grande fede. È questo il ricordo che il cardinale Louis G. Tagle conserva a sei anni di distanza dal viaggio di Papa Francesco nelle Filippine. Il prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, all’epoca arcivescovo di Manila, ne parla in questa intervista a «L’Osservatore Romano».
Dal 15 al 19 gennaio 2015, proveniente dallo Sri Lanka, il Pontefice visitò la nazione con il maggior numero di cattolici dell’Asia. Può confidare qualche ricordo personale legato a quelle giornate?
Mi vengono in mente due aspetti: anzitutto l’attenzione personale del Santo Padre ai segni dei tempi. La visita, che aveva come tema «misericordia e compassione», è avvenuta nel cuore del cammino di preparazione verso il quinto centenario dell’annuncio del Vangelo nelle Filippine e noi vescovi avevamo deciso che il 2015 fosse l’«Anno dei poveri». Il Papa è giunto specialmente per le vittime del tifone Ayan (Yolanda), ma ho potuto vedere da vicino come lui fosse interessato non solo a dare, ma anche a ricevere dai bisognosi e dai sofferenti; a farsi interrogare dalle loro testimonianze; e ho ammirato il suo stupore, come quello di un ragazzo, davanti a tutto ciò. Al punto che più di una volta mi ha sussurrato “quest’uomo è pieno di fede” oppure “ma davvero c’è così tanta gente?”. Per non parlare poi della commozione vissuta nella casa della Fondazione Tulay ng Kabataan (TNK Foundation) che a pochi passi dalla cattedrale di Manila ospita bambine strappate alla strada. Una tappa fortemente voluta perché nei mesi precedenti io gli avevo fatto avere centinaia di loro lettere. E poi c’è stata la piccola Glyzelle Palomar, la ragazzina salvata proprio da TNK, che durante l’incontro con i giovani nel campo sportivo dell’Università Santo Tomas ha domandato singhiozzando perché i bambini soffrono. E Francesco ha spiegato che l’unica risposta è imparare a piangere come lei.
E il secondo aspetto?
È stata la sua sollecitudine per le sofferenze delle famiglie di Tacloban, devastata dal tifone alla fine del 2013: conclusa la messa nell’aeroporto del capoluogo, Francesco è partito alla volta della residenza dell’arcivescovo di Palo — che rappresenta la Chiesa cattolica in quel territorio — in vettura scoperta nonostante il maltempo, per poter salutare il maggior numero di persone possibile. Lungo il tragitto si è fermato con una famiglia di pescatori davanti alla loro casa distrutta. Al palazzo arcivescovile era programmata una sosta di un’ora e mezza, ma le avverse condizioni meteo hanno ridotto quel tempo a soli quindici minuti e lui ha voluto che fossero usati per la condivisione di storie ed esperienze. Siccome facevo un po’ da interprete, mi ha chiesto di concentrare tutto in una sola domanda — «Come sta la sua famiglia?» — perché avevamo davanti persone che avevano perso tutti i loro cari o molti di essi. Il Papa non è riuscito a mangiare ma ha ascoltato i brevi racconti e nel silenzio ha abbracciato tutti i presenti; poi si è scusato per il poco tempo a disposizione, allora uno dei commensali con le lacrime agli occhi ha esclamato: «Non dire così Santo Padre! La tua presenza vale più di tutto; chi siamo noi? Siamo povera gente, non meritiamo tutta questa attenzione». Abbiamo vissuto quei momenti con lo spirito di una famiglia che condivide la sofferenza e abbiamo sperimentato un’eruzione di amore e anche di speranza!
Alla messa conclusiva del viaggio, nel Rizal Park di Manila fu attestata la presenza di oltre sei milioni di persone. Com’è stato possibile mobilitare così tanti fedeli?
Secondo la sicurezza ce ne sarebbero state anche di più contando la gente nelle strade secondarie; ma quelle che in Occidente sembrano cifre stratosferiche, per noi filippini sono la normalità: siamo abituati a vedere folle immense nelle feste religiose più importanti. Basti pensare alla Traslacion, la tradizionale processione con la statua del Nazareno Nero di Quiapo, che ogni 9 gennaio, almeno prima della pandemia, radunava milioni filippini da tutto il Paese; o alla venerazione nei confronti del Santo Niño di Cebu la cui ricorrenza è nella terza domenica di gennaio. Sono espressioni della devozione verso Cristo e verso Maria sua Madre, al punto che noi pastori ci limitiamo a organizzare la liturgia, la formazione biblica, al massimo la sicurezza, e fissiamo l’invito: ma non c’è bisogno di particolari convocazioni, è un’adesione di massa spontanea. Così anche nel momento in cui c’era il Papa, simbolo della presenza del Signore come pastore della Chiesa, e nel 2015 anche simbolo della speranza di rinascita dopo le catastrofi naturali, è stato normale vedere tanta gente; anche se devo confessare che un po’ mi sono sorpreso anch’io per i numeri così sbalorditivi. Per noi la presenza significa preghiera: ringraziare il Signore non solo con le parole, ma anche con il corpo. Ecco perché nelle Filippine si vede tutta l’energia e la potenza della spiritualità popolare, che è frutto di un misticismo del popolo espresso in questo modo con l’accoglienza riservata al Santo Padre. I filippini sono conosciuti per il loro sorriso che manifesta amore a Dio, per la loro fervente pietà e la loro calorosa devozione a Gesù, alla Madonna e al rosario.
Venendo ai giorni nostri, Papa Francesco ha deciso di mettere la famiglia al centro della vita della Chiesa con l’indizione dell’Anno speciale «Amoris laetitia». Lei conosce bene l’esortazione post-sinodale essendo stato tra i presidenti delegati a entrambe le assemblee dei vescovi convocate dal Pontefice su questo tema nel 2014 e nel 2015. Che riflessi può avere tale iniziativa nelle Filippine?
In ogni diocesi, parrocchia, scuola cattolica o movimento nel Paese c’è sempre questo interesse pastorale verso le famiglie e sono convinto che l’Anno speciale darà un ulteriore impulso sotto diversi aspetti a una realtà già presente. In particolare servirà da incoraggiamento ai filippini migranti — pensiamo ai tanti che sono in Italia e al loro contributo, spesso trascurato, alla vita e al benessere delle società in cui vivono — i quali insieme ai loro cappellani sono chiamati a riscoprire la famiglia come “Chiesa domestica” e a risvegliare la vocazione di ciascuno nella trasmissione della fede dai genitori ai figli, ma anche dagli anziani ai giovani, ovvero dai nonni ai nipoti, e viceversa, perché è anche vero che ogni tanto sono i bambini a educare gli adulti a crescere nella fede. Un secondo aspetto ha a che fare con la missione evangelizzatrice della famiglia, e questo vale sia in patria, sia nelle terre di emigrazione. In Medio Oriente, per esempio, il vicario apostolico Paul Hinder mi ha confidato che grazie ai filippini le chiese sono piene specialmente alla messa domenicale, ma anche nella ferialità animano gruppi di preghiera o di studio della Bibbia. Ricordo che si tratta di donne e uomini che hanno lasciato la propria casa per cercare lavoro, ma hanno trovato anche una missione, che non è solo individuale bensì coinvolge l’intero nucleo famigliare. E in questo modo tante famiglie di migranti e di profughi nella sofferenza diventano strumenti di evangelizzazione.
Circa un anno fa lei è stato chiamato dal Papa a Roma per una nuova missione come prefetto di Propaganda fide. Quanto dell’esperienza ministeriale maturata a Manila è presente nel suo servizio attuale?
Se guardiamo la cartina notiamo la distanza geografica tra queste due metropoli: e in realtà sono mondi diversi, con linguaggi e atteggiamenti differenti; ma hanno anche molto in comune e io ringrazio il Signore per il mio episcopato nella capitale della nazione filippina, centro della politica e della cultura, e terra di immigrazione, sia interna sia esterna. Insomma anche a Manila ero esposto alla diversità, ma in uno spazio geografico più limitato; comunque avendo partecipato a tanti incontri della Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia (Fabc) ho approfondito la conoscenza di un continente in cui il cattolicesimo non è maggioritario come nelle Filippine. Ora in Vaticano, come stretto collaboratore del Papa, vedo la realtà della comunione che è nella Chiesa cattolica, la quale non è astratta, non è un concetto, ma è concreta, come dono di unità dello Spirito Santo, espresso nella vitalità delle Chiese locali, ognuna delle quali ha qualcosa da offrire alla cattolicità. E io sono qui per condividere le esperienze e le ferite, i sogni e le sofferenze dei filippini e degli asiatici, e contribuire così con il patrimonio spirituale e culturale della mia terra alla ricchezza della Chiesa cattolica.
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