Il Papa: San Giuseppe, un padre dal cuore aperto ai segni di Dio
Benedetta Capelli – Città del Vaticano
San Giuseppe, modello per i pastori chiamati ad essere soprattutto padri. Papa Francesco, alla vigilia della solennità del Patrono della Chiesa universale, riprende i temi forti della Patris Corde, la Lettera apostolica con la quale, l’8 dicembre 2020, ha indetto l’Anno di San Giuseppe. Lo fa nel testo consegnato all’udienza al Pontificio Collegio Belga, a 175 anni dalla sua fondazione, l’istituto può vantare “tra i suoi alunni – ricorda Francesco - San Giovanni Paolo II”.
Non possedere ma accogliere
Padre che accoglie, custodisce e sogna: tre indicazioni da declinare nel ministero sacerdotale, tre tratti salienti della figura di Giuseppe. Il Papa guarda al padre putativo di Gesù evidenziando il suo mettere da parte i progetti personali, amando senza cercare spiegazioni “alla sorprendente e misteriosa realtà che si è trovato di fronte” accogliendola con fede. Un atteggiamento che, ad esempio, il prete inviato in una nuova parrocchia è chiamato a sposare per evitare – spiega il Papa - di restare imbrigliato in piani pastorali già precostruiti senza tener conto della realtà preesistente.
In questo senso San Giuseppe ci è maestro di vita spirituale e di discernimento, e lo possiamo invocare per essere liberati dai lacci delle troppe riflessioni nelle quali ogni tanto, pur con le migliori intenzioni, finiamo per perderci. Esse manifestano la nostra tendenza ad “afferrare” e “possedere” quello che ci accade, piuttosto che accoglierlo prima di tutto così come ci si presenta.
Non essere “monolitico”
Custodire con dedizione, fedeltà, con costante attenzione ai segni di Dio, “con la libertà interiore del servo buono e fedele che desidera solo il bene delle persone che gli sono affidate”. E’ l’amore di Giuseppe che si concretizza in un cuore vigilante, attento e orante. Così il pastore non abbandona il suo gregge, sottolinea il Papa nel testo, ma si mette “davanti per aprire la strada, in mezzo per incoraggiare, indietro per raccogliere gli ultimi”. “Non pone al centro sé stesso e le proprie idee, ma il bene di coloro che è chiamato a custodire, evitando le opposte tentazioni del dominio e della noncuranza”.
A ciò è chiamato un prete nel rapporto con la comunità che gli è affidata, ad essere cioè un custode attento e pronto a cambiare, a seconda di ciò che la situazione richiede; non essere “monolitico”, rigido e come ingessato in un modo di esercitare il ministero magari buono in sé, ma non in grado di cogliere i cambiamenti e i bisogni della comunità.
Guardare oltre
Dove altri non vedono nulla, Giuseppe scruta l’azione di Dio, facendosi “sognatore”, colui che guarda al di là. In Maria e Gesù trova i segni della sua presenza, “preferendo credere più a Dio che ai propri dubbi, si è offerto a Lui – evidenzia il Papa - come strumento per la realizzazione di un piano più grande, in un servizio prestato nel nascondimento, generoso e instancabile, sino alla fine silenziosa della propria vita”.
Per i preti, allo stesso modo, è necessario saper sognare la comunità che si ama, per non limitarsi a voler conservare ciò che esiste – conservare e custodire non sono sinonimi! –; essere pronti invece a partire dalla storia concreta delle persone per promuovere conversione e rinnovamento in senso missionario, e far crescere una comunità in cammino, fatta di discepoli guidati dallo Spirito e “spinti” dall’amore di Dio.
L’invito di Francesco, a conclusione del testo, è di riscoprire “nella preghiera la figura e la missione di San Giuseppe, docile alla volontà di Dio, umile autore di grandi imprese, servo obbediente e creativo”, imparando l’arte della paternità per guidare il popolo di Dio.
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