L’audacia della vulnerabilità, la profezia di una visione
di José Tolentino de Mendonça
È risaputo che viviamo nell’era della massificazione delle immagini. In nessuna epoca precedente della storia sono state prodotte così tante immagini, e inoltre nessun’altra, come la nostra, ha assistito alla loro radicale banalizzazione. Invece d’immagini uniche e autentiche, abbiamo prodotti realizzati in serie, selfie fabbricati in un istante e in un istante pronte a essere divorati dall’oblio. Il filosofo Walter Benjamin ha parlato giustamente di “perdita dell’aura”, cioè l’immagine smette di costituire “l’apparizione unica di una cosa distante” e si fissa sulla sonnambula ripetizione di un déjà vu. Per questo il commosso consenso attorno all’immagine di Papa Francesco in una Piazza san Pietro vuota è qualcosa che fa pensare, fuori e dentro lo spazio ecclesiastico.
A un anno di distanza, vale la pena rivisitare quell’immagine, che in realtà non ha mai smesso di essere presente, e domandarsi da dove proviene il suo eccezionale potere iconico. Perché è quell’immagine che è rimasta a rappresentare ancora quello che stiamo vivendo e non un’altra qualunque? E che cosa ci rivela di sé stessa o che cosa c’insegna su noi stessi? Cercando di sintetizzare ciò che meriterebbe sicuramente una riflessione più ampia, indicherei quattro ragioni.
L’audacia di abitare la vulnerabilità come luogo dell’esperienza umana e credente. È vero che la cultura dominante, il mainstream modellato come un automatismo dalle nostre società consumistiche, ha fatto della vulnerabilità una specie di tabù. La fragilità è soggetta a un occultamento. E a forza di vietarci l’incontro con la sofferenza umana sappiamo riconoscerci sempre meno in essa, o partiamo da essa per approfondire il senso della nostra comune umanità. Ma questo non è solo un problema della cultura odierna. Anche la performance religiosa ha qualche difficoltà a integrare ciò che Michel de Certeau chiamava la “debolezza di credere”. L’immagine che si tramette è più quella di un’operazione compiuta a partire da un copione che non quella della spoliazione e dell’apertura per realizzare una “strada non tracciata”. Papa Francesco ha osato abitare la vulnerabilità. Non si è limitato a parlare della vulnerabilità del mondo, come se lui ne fosse esente. Nella misura in cui ha accettato di esporsi come uno qualunque, è emerso come una figura sacerdotale capace di rappresentare tutti.
L’audacia di abbracciare e ridare significato al vuoto. Una delle esperienze più impattanti del confinamento è stata, all’inizio della pandemia, assistere allo svuotamento delle città. Da un momento all’altro si è diffuso uno strano e sconosciuto silenzio. Increduli, guardavamo dalle nostre finestre le vie e le piazze in una solitudine assoluta, sentendoci come espropriati del mondo. La nostra prima reazione è stato di leggere il vuoto come qualcosa di ostile che ci minacciava. Ebbene, Francesco ha avuto la grande saggezza di abbracciare il vuoto invece di ripudiarlo, sottolineando il suo potenziale simbolico e rivelatore. Per questo è stato molto importante il testo evangelico scelto, la scena della tempesta sedata secondo Mc 4, 35-41. Perché se, da un lato, si accettava il vuoto, abbracciandolo come luogo esistenziale e teologico, dall’altro, la Parola di Dio forniva la chiave per ridargli significato. Il vuoto diventava una barca. “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti”. Il vuoto offriva una nuova grammatica per scoprirci non come frammenti isolati, ma come Fratelli tutti.
L’audacia di trovare una metafora. Commentando il testo evangelico di Mc 4, 35-41, Papa Francesco ha compiuto un gesto di grande portata: ha riorientato la percezione rispetto alla pandemia. I primi capi di Stato a parlare si erano riferiti alla pandemia come a una guerra, metafora fino a un certo punto comprensibile, ma troppo equivoca e con tanti pericoli in agguato. Il Papa è stato il primo a parlarne come di una tempesta. Questo passaggio dallo stretto piano belligerante al piano cosmologico ha coinciso con un allargamento di visione. Ha permesso, per esempio, di smantellare l’impulso iniziale di trovare un colpevole, accettando invece che la tempesta ci mostrasse tutti in una vulnerabilità che non vogliamo vedere e che ci coinvolge tutti in una ricostruzione che c’impegna globalmente. Questo tempo di prova rappresenta così un tempo per nuove e profetiche scelte che ci uniscano, invece d’intensificare il trionfo della logica dei conflitti e delle parti.
L’audacia di pregare Dio nel silenzio di Dio. Le tempeste sono esperienze di crisi anche per i credenti. C’è uno scandalo implicito nel grido dei discepoli che cercano di svegliare Gesù: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Mc 4, 38). Come spiega il Papa, questa “è una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore”. Dinanzi alla disseminazione del male e alla sua vicinanza traumatica, sentiamo con sofferenza quello che sembra essere l’incomprensibile silenzio di Dio. E la grande tentazione in quei momenti è il nichilismo o la smobilitazione. Sul potere delle immagini Heidegger ha scritto che “l’essenza dell’immagine è nel far vedere qualcosa”. L’immagine del Papa che prega e che imparte la benedizione eucaristica, in un contesto sperimentato universalmente come di desolazione, fa vedere come l’invisibile di Dio perfora i blocchi della storia e il Suo silenzio ci dà la possibiltà di vivere, seguendo i passi di Gesù, le situazioni di abbandono come fiducia e consegna nelle Sue mani. Francesco ha chiesto: “Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio”. E così è stato.
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