Il Papa sarà al Colosseo alla Preghiera per la pace promossa da Sant'Egidio
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Il direttore della Sala Stampa vaticana conferma che il Santo Padre prenderà parte alla cerimonia finale dell’Incontro di Preghiera per la Pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, nel pomeriggio di giovedì 7 ottobre nel piazzale accanto al Colosseo, Incontro presentato oggi nella sua 35ma edizione. Il titolo è “Popoli fratelli, terra futura. Religioni e Culture in Dialogo” e, come tradizione, si inserisce nel solco di quello “spirito di Assisi” che ha operato dopo la storica giornata voluta da Giovanni Paolo II nel 1986. L’evento, che si svolgerà il 6 e 7 ottobre, vedrà riunite le grandi religioni mondiali dopo un anno dominato dalla crisi sanitaria per la pandemia da Covid-19, ma anche dai troppi conflitti ancora in corso in tante parti del mondo. Quattro i forum che si svolgeranno a Roma presso il centro congressi della Nuvola all’Eur con leader delle religioni, del mondo della cultura e delle istituzioni provenienti da diversi continenti. Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità di Sant'Egidio, esprime la gioia per questa presenza:
Come accogliete la notizia della presenza del Papa a suggello del vostro Incontro?
Naturalmente, accogliamo questa notizia con grande gioia. Il Papa ha guidato – mi permetta di dirlo – il mondo, durante la pandemia. Il suo ormai celebre discorso, il 27 marzo 2020, sulla crisi e la pandemia e su come uscirne, è un po’ la guida del nostro incontro. Già lo scorso anno ci fu un’edizione ridotta di questa Preghiera per la pace in Campidoglio, con la presenza del Santo Padre, e aveva proprio il titolo “Non ci si salva da soli”. Questa nuova Preghiera per la pace, questa volta con maggiori presenze visto l’alleggerimento della pandemia, vuole continuare su quel solco: non ci si salva da soli; ma anche popoli fratelli e Terra futura, cioè lo sguardo sulla fraternità universale e sulle crisi ambientali, cioè come lavorare per un mondo che rispetti l’ambiente e che prepari un futuro per i nostri figli e nipoti.
Siamo ormai a un anno dalla pubblicazione dell’Enciclica Fratelli tutti: secondo lei, quale breccia ha fatto, questo documento, nel mondo, nei diversi popoli, nelle diverse culture, presso le diverse fedi?
Direi innanzitutto che è un testo di riferimento che indica il futuro del mondo, perché la pandemia ha dimostrato che da soli né i popoli né le persone vanno da alcuna parte. Restiamo in una situazione di estrema fragilità. L’unica risposta che può esserci dopo questa grave crisi è proprio quella del camminare insieme e del costruire le basi per una fraternità universale, naturalmente ciascuno nella sua diversità ma uniti, tenendo conto e pensando soprattutto a quei popoli e a quelle persone che sono più in difficoltà e che finora sono state – in un certo senso – emarginate o scartate dalle grandi società mondiali. Quindi, questa enciclica è veramente la base per la costruzione del mondo di domani in senso positivo.
Le leadership politiche dei maggiori Paesi del mondo secondo lei sono state interpellate da questa enciclica?
Io credo di sì, perché in questo mondo, oggi, non ci sono grandi discorsi di riferimento. Parliamo sempre molto del presente oppure i ragionamenti sono soprattutto a livello economico, seppure c’è una nuova sensibilità ambientale, come dimostra la prossima Cop a Glasgow. E’ per questo che Sant’Egidio riunisce i rappresentanti delle grandi religioni mondiali, cercando di spingere tutti verso questo sogno e disegno della fraternità, che è l’unica strada: primo, per interrompere la spirale della violenza, delle guerre e del terrorismo nel mondo, perché ci sono ancora migliaia di persone che muoiono. Secondo, perché le religioni che in un certo senso diventano sorelle possono dare un grande contributo a una nuova cura dell’ambiente. Penso, tra queste, alla grande opera del Patriarca ecumenico Bartolomeo che da anni insiste su questo tema e che sarà tra i protagonisti dell’Incontro di Roma.
Non siamo ancora fuori dalla pandemia: qual è il messaggio della Comunità di Sant’Egidio, in questo frangente?
E’ l’ora di ricominciare insieme. Dobbiamo ritrovare il “noi”. Siamo andati avanti come popoli e come persone con il protagonismo dell’“io”, ma questo protagonismo dell’“io” non ci ha protetto dalle crisi gravi che il mondo ha toccato: dobbiamo far sì che la pace sia possibile per sostenere tutti gli operatori di pace nel mondo, gli amici del dialogo che sono sparsi nel mondo e per incoraggiare i tanti cammini di dialogo e di pace. E poi, ritrovare il “noi” per curare assieme la casa comune, che è la nostra Terra Madre.
Come la crisi afghana sta interpellando le attività di Sant’Egidio? In quale misura, secondo voi, è realmente possibile un dialogo con i talebani?
Ci interroga su due punti essenziali: l’inutilità della guerra. E’ un’ulteriore riprova – questa crisi afghana – che la guerra è un’inutile strage, come diceva Benedetto XV: “E’ un’avventura senza ritorno”, come ripeteva San Giovanni Paolo II, e che quindi non si può aiutare un popolo con la guerra. Il secondo è quello dei migranti: la crisi afghana ha dimostrato una volta di più che le migrazioni sono migrazioni forzate, in questo mondo, dovute alle grandi crisi internazionali oltre che alle crisi ambientali. E la guerra ha spinto tantissimi a fuggire dal loro Paese e riporta la nostra attenzione su che cosa significa accogliere e integrare i migranti nelle nostre società occidentali. In terzo luogo, l’Afghanistan è un Paese che non va dimenticato: non ci sono popoli o Paesi al mondo che vanno lasciati da soli. Naturalmente, sempre se questi popoli o chi li governa, hanno intenzione – diciamo – di collaborare, di aprirsi al mondo. E quindi l’appello agli afghani è di non chiudersi a un dialogo, a un incontro, con gli altri popoli.
Al G20 l’Africa è la grande assente. Come si attua il grande riscatto del Continente Nero, per il quale molto Sant’Egidio si adopera?
Direi che l’Africa è la grande sconosciuta: i popoli del Nord del mondo non hanno capito qual è il grande cambiamento che sta avvenendo in Africa, perché l’Africa è entrata nel tempo della globalizzazione. I giovani africani, molti dei quali vediamo tra i migranti giungere in Occidente, ci fanno una domanda: come i nostri Paesi potranno svilupparsi? Come sviluppare una nuova classe dirigente libera dalla corruzione? Come inserire i grandi popoli africani nello sviluppo del mondo? E l’Africa non va lasciata sola in un nuovo partenariato che va costruito.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui