Il Papa trasferisce ai vescovi competenze riservate alla Santa Sede
Alessandro De Carolis – Città del Vaticano
Non più un’“approvazione” bensì una “conferma”. Si gioca sul passaggio di testimone dal primo al secondo termine la novità principale del motu proprio col quale Papa Francesco he deciso di modificare l’assegnazione di alcune competenze previste dal Codice di Diritto Canonico, sia della Chiesa latina sia di quelle orientali. Tra queste anche la competenza per le Conferenze episcopali di pubblicare i catechismi. Una delle prime novità riguarda lo spostamento dalla Santa Sede al vescovo diocesano della facoltà di creare un seminario nel suo territorio senza dover più attendere l’approvazione da Roma ma semplicemente una sua conferma. Lo scopo, come viene definito nell’introduzione al motu proprio, è quello di favorire un “sano decentramento” che renda più dinamica l'assunzione di decisioni in campo ecclesiale.
Analoga possibilità viene riconosciuta ai vescovi circa la formazione sacerdotale (i vescovi possono adattarla “alle necessità pastorali di ogni regione o provincia”) e l’incardinazione dei sacerdoti, che d’ora in avanti potranno esserlo - oltre che in una Chiesa particolare o in un Istituto religioso - anche in una “Associazione pubblica clericale”, riconosciuta dalla Santa Sede, in modo da evitare che vi siano “chierici acefali e girovaghi”. Al criterio del decentramento, ma anche della “prossimità”, risponde pure l’allungamento da 3 a 5 anni del periodo di “esclaustrazione”, cioè della possibilità che autorizza un religioso a vivere al di fuori del proprio Istituto per gravi motivi. Il motu proprio, oltre che sulla competenza per le Conferenze episcopali di pubblicare catechismi, interviene trasferendo dalla Santa Sede alla responsabilità delle Chiese locali le decisioni su possibili riduzioni del numero di Messe da celebrare rispetto alle intenzioni ricevute.
Il vescovo Marco Mellino, segretario del Consiglio di cardinali e membro del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, spiega i principi generali che hanno ispirato il motu proprio del Papa.
Mons. Mellino, in linea generale, il Motu proprio di Papa Francesco presenta i cambiamenti con la volontà di decentrare da Roma verso le Chiese particolari l’esercizio di alcune competenze: che cosa ha ispirato questa scelta?
Il motu proprio, con il quale vengono mutate alcune norme dei due Codici della Chiesa cattolica - il Codice di diritto canonico per la Chiesa latina e il Codice dei canoni delle Chiese orientali per quella orientale - è un tassello che si va ad unire al lavoro di riforma che Papa Francesco ha avviato fin dall’inizio del suo pontificato e che sta portando avanti.
Risponde allo spirito del “sano decentramento” indicato nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, n. 32, volto a favorire e valorizzare nella Chiesa la dinamica della prossimità, senza pregiudicare con questo la comunione gerarchica.
L’intenzione che lo anima è profondamente pastorale ed è ben delineato nel cappello introduttivo del testo, nel quale è detto che tenendo presente la cultura ecclesiale e la mentalità giuridica propria di ciascun Codice, alcune competenze finora attribuite alla Santa Sede, e dunque esercitate dal governo centrale, vengono “decentrate”, ossia assegnante ai vescovi (diocesani/eparchiali o riuniti in Conferenze episcopali o secondo le Strutture gerarchiche orientali) e ai superiori maggiori degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica con il preciso intento di favorire innanzitutto il senso della collegialità e della responsabilità pastorale, oltre che assecondare i principi di razionalità, efficacia ed efficienza.
E’ evidente, infatti, che quando l’autorità ha una conoscenza diretta e più vicina delle persone e delle fattispecie che richiedono un’azione pastorale di governo, questa azione, in forza proprio della prossimità, può essere di più rapida efficacia.
In questo senso, quindi, nelle modifiche normative che vengo apportate con questo Motu proprio si rispecchia ancor più l’universalità condivisa e plurale della Chiesa, che comprende le differenze senza omologarle, garantite, per quanto riguarda la sua unità, dal ministero petrino proprio del Vescovo di Roma.
Tra i primi aspetti su cui il documento incide, ci sono la creazione dei Seminari interdiocesani, la ratio riguardante la formazione sacerdotale e l’incardinazione dei sacerdoti: quali sono le novità che vengono introdotte?
Finora per l’erezione di un seminario interdiocesano, come per la ratio di formazione sacerdotale emanata da una Conferenza episcopale, la normativa richiedeva l’“approvazione” da parte della Santa Sede, ora, invece, è prevista la “conferma”.
L’approvazione è il provvedimento con il quale un’autorità superiore (in questo caso la Santa Sede), esaminata la legittimità e l’opportunità di un atto di un’autorità inferiore, ne permette l’esecuzione. La confermazione, invece, è la semplice ratifica dell’autorità superiore che conferisce al provvedimento dell’autorità inferiore una maggiore autorevolezza. Da ciò si capisce che l’approvazione, rispetto alla conferma, comporta un impegno e coinvolgimento maggiore dell’autorità superiore. Pertanto, è evidente che il passare dal richiedere l’“approvazione” al richiedere la “conferma” non è solo un cambiamento terminologico, ma sostanziale, che si muove precisamente nella direzione del decentramento.
Questo vale anche per l’istituto dell’incardinazione, che è l’istituto che definisce il legame tra il servizio ministeriale di un chierico e una Chiesa particolare, ne indica l’appartenenza e l’impegno a dedicarsi ad essa. Finora la legislazione prevedeva che l’incardinazione è possibile nella Diocesi o nelle strutture ad esse equiparate (es. ordinariato militare, abbazia territoriale, vicariato apostolico, prefettura apostolica), nelle prelature personali e negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica. Con l’entrata in vigore di questo Motu proprio a queste strutture atte ad incardinare si aggiunge anche quella delle Associazioni pubbliche clericali che abbiano ottenuto tale facoltà dalla Sede Apostolica. Va sottolineato che questa aggiunta armonizza al riguardo il Codice di diritto canonico per la Chiesa cattolica latina (can. 265) con quello per le Chiese cattoliche orientali (can. 357 § 1) che già lo prevede.
Alcuni canoni vengono modificati per ciò che concerne la possibilità di un professo o una professa di ottenere di essere assenti, per un certo periodo di tempo, dalla vita comune del proprio Ordine o Istituto, altri riguardano, invece, l’uscita dall’Istituto stesso: dove si interviene nella sostanza?
L’indulto di esclaustrazione autorizza un religioso a restare per un tempo determinato fuori dal proprio Istituto. Non comporta la separazione da esso, ma lo autorizza a vivere al di fuori per un tempo stabilito.
Finora il moderatore supremo poteva concedere tale indulto per un periodo di tempo massimo fino a tre anni. Per un’eventuale proroga, o la concessione di un indulto di durata superiore ai tre anni doveva ricorrere alla Santa Sede. Ora, invece, il periodo di tempo massimo concesso è stato ampliato e portato a cinque anni. Questo lasso di tempo maggiore concesso al moderatore supremo risponde al principio del sano decentramento e della prossimità: conoscendo la persona e la situazione, si concede al moderatore supremo più tempo per agire nel modo che ritiene più opportuno e più utile al professo, nonché all’Istituto stesso.
Circa un professo temporaneo che per grave causa chiede di lasciare l’istituto, la competenza del relativo indulto è assegnata al moderatore supremo con il consenso del suo consiglio, sia che si tratti, per il codice latino, di istituto di diritto pontificio, sia che si tratti di istituto di diritto diocesano, oppure di un monastero sui iuris. Finora, invece, per un istituto di diritto diocesano, oppure un monastero sui iuris questo indulto non aveva validità se non era confermato anche dal vescovo della casa dove il religioso risiedeva. Tale modifica è stata apportata anche per quanto riguarda il codice orientale circa un monastero sui iuris, o un ordine, oppure una congregazione. Anche qui il principio è quello di agevolare quest’azione pastorale di governo all’autorità che ha una conoscenza più diretta e più vicina delle persone interessate e della situazione in cui si trovano.
La stessa logica sta alla base delle modifiche riguardanti la normativa circa il decreto di dimissione dall’istituto, per causa grave, di un professo temporaneo o perpetuo. Esso ha effetto fin dal momento in cui, emesso dal moderatore supremo con il consenso del suo consiglio, viene notificato all’interessato, fermo restando il diritto di appello del religioso in questione. Non è più previsto, come disponeva la normativa vigente finora, che per i monasteri sui iuris gli atti del Superiore revisionati dal suo consiglio siano sottoposti al vescovo diocesano, al quale compete la decisione circa la dimissione; né che il decreto di dimissione debba essere confermato dalla Santa Sede se si tratta di un istituto di diritto pontificio, o dal vescovo diocesano in cui sorge la casa alla quale il religioso è ascritto se si tratta di istituto di diritto diocesano.
Altre novità riguardano la pubblicazione di catechismi da parte delle Conferenze episcopali e la riduzione degli oneri delle Messe e quelli annessi alle cause pie e alle fondazioni: di cosa si tratta?
Circa i catechismi, ad oggi la normativa prevede che se una Conferenza episcopale ritiene utile pubblicare un catechismo o catechismi per il proprio territorio deve ottenere la previa “approvazione” della Sede Apostolica. Per la ragione del sano decentramento e della prossimità, già esposto e spiegato prima, è parso bene anche qui sostituito il termine “approvazione” con il termine “conferma”.
Circa gli oneri delle Messe e quelli annessi alle cause pie e alle fondazioni, occorre premettere che la normativa risponde ad un principio generale, secondo cui le volontà dei fedeli si devono adempiere diligentemente. Questo, tuttavia, non esime dal fatto che, col tempo, si presentino necessarie eccezioni, imputabili alla non corrispondenza o allo squilibrio sopravvenuti tra il costo degli oneri e l’importo delle rendite destinate a farsene carico. Se gli oneri diventano più costosi, o le rendite diminuiscono, o si verificano entrambe le circostanze è evidente che si deve prevedere un riassestamento.
Fatta questa premessa, circa la riduzione degli oneri delle Messe, che sempre richiede una causa giusta e necessaria, finora la normativa riservava la competenza alla Santa Sede; ora, invece, viene affidata al vescovo diocesano e al moderatore supremo di un Istituto di vita consacrata o di una Società di vita apostolica clericali.
Così la competenza circa la riduzione, il contenimento e la permuta delle volontà dei fedeli a favore di cause pie, da attuarsi soltanto per causa giusta e necessaria, viene assegnata all’Ordinario, uditi gli interessati e il proprio consiglio per gli affari economici e rispettata nel miglior modo possibile la volontà del fondatore. Nei rimanenti casi, invece, (vendita) si deve ricorrere alla Sede Apostolica. Quest’ultima disposizione risponde ad un principio di cautela e di prudenza.
In ogni caso, anche per queste ultime due fattispecie il principio per cui si è modificata la normativa è ancora quello del decentramento, della prossimità, di un’azione pastorale di governo che possa essere di più rapida efficacia e rispondente, in ultimo, a quella che nella Chiesa deve sempre essere la legge suprema: la salvezza delle anime. Fare il bene dei fedeli, farlo al meglio e farlo subito.
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