Francesco e la Chiesa in uscita, per essere vicini al dolore del mondo intero
di Francesco Pesce*
Sarebbe potuto diventare uno slogan come tanti, una chiave per aprire qualche porta importante. Chiesa in uscita: parole da inserire nelle omelie e nelle conferenze per far piacere al Papa, al vescovo o al parroco. Qualcuno ci ha provato, ma ha fallito; altri hanno provato addirittura a metterle in ridicolo, ma anche questi hanno fallito, soffocati in una falsa tradizione che si è trasformata in una prigione che ha come sbarre il non senso delle forme vuote e la mancanza di adesione al reale.
In questi dieci anni invece, queste parole sono diventate la risposta più bella a quelle altre che leggiamo nella parabola del Buon Samaritano: passò oltre dall’altra parte. Non vogliamo essere una tribù confinata in una riserva. È arrivato il momento di abbattere il confine.
La chiamata di Papa Francesco ad uscire è direi prima di tutto spirituale; uscire infatti, non è un metodo e neanche solo una necessità storica; uscire è prima di tutto una vocazione, che da Abramo in poi caratterizza la voce dello Spirito che ci manda verso le sorprese del Suo Amore. Il diavolo con la sua astuzia vuole convincerci che siamo inadeguati e che la nostra debolezza sia un ostacolo. Invece è proprio la nostra debolezza il nostro punto di forza, perché ogni azione missionaria nasce da una debolezza accettata. Noi con la forza dello Spirito desideriamo offrire uno sguardo contemplativo che accompagna ogni povertà, che l’occhio tecnocratico e di potere ha prodotto.
Chiesa in uscita significa essere vicini al dolore del mondo intero; non abbiamo da dire parole che vincono ma quelle che salvano: «Voi che l’avete intuito per grazia continuate il cammino, spargete la vostra gioia, continuate a dire che la speranza non ha confini». (David Maria Turoldo).
Se noi ci domandiamo come sia possibile oggi una opera di evangelizzazione nella quale nessuno sia escluso, e i più deboli siano finalmente liberati dalle ingiustizie che subiscono, noi non possiamo che essere seminatori nel vasto campo del mondo intero, dove sacro e profano convivono ed imparano a meglio conoscersi e rispettarsi nel loro comune destino di figli amati dal Padre.
Noi non viviamo in due spazi separati: uno, quello dove c’è odore di incenso, l’altro dove c’è polvere e sangue. La nostra unica casa è la città dell’uomo che però è una città reale, non astratta, dove rinnovamento e aggiornamento sono necessari per rendere la vita veramente a misura di ogni uomo. Gli spazi di questa città, non devono essere troppo ordinati, perché molte sono le vittime dei nostri equilibri. Dobbiamo sempre più e meglio entrare nelle contraddizioni di questo tempo senza paura di venire contagiati da chissà quale malattia.
L’orizzonte del nostro cammino è il bene dell’uomo immagine e somiglianza di Dio. La Chiesa non esiste in funzione di sé stessa ma per portare Cristo al mondo, per annunciare il Vangelo alle genti. Non si tratta di fare delle cose nuove, ma passare da un modo di vedere e vivere la fede come l’espressione di un cristianesimo consolidato, socialmente riconosciuto, per entrare come piccolo gregge dentro la vita delle persone.
Uscire incontro all’uomo è impegnativo, faticoso, in particolare quando tocca le ferite profonde e a volte pare di passare da urgenza a urgenza ma il Signore dona sempre la sua luce.
L’indicazione della Parola di Dio è precisa: «Amate non a parole ma nei fatti». Se, ad esempio, c’è una comunità che vive tutta chiusa in intensa vita spirituale, in un quartiere dove ci sono disoccupati, senza casa, senza patria, cosa è, questa comunità, nei fatti? Il baricentro di una comunità che abbia le misure del cuore di Dio non è dentro ma fuori, dove c’è la sofferenza, l’attesa, il bisogno, la tribolazione.
La Parola di Dio è proprio lo strumento da portare sempre con noi; il Papa lo ha ripetuto spesso in questi dieci anni. A me sembra sempre istruttiva l’esperienza di Paolo; all’inizio del suo cammino di fede c’è l’azione di Dio che entra in un modo fortissimo con la Sua Parola; Paolo approfondisce questa realtà e sente che la Parola che poi predicherà per tutta la vita è il cuore della sua missione.
In fondo perché Paolo si è convertito a Cristo? Cosa c’è stato di così forte nella sua vita? Paolo si è sentito amato; alla radice del suo cambiamento, si è sentito scelto perché amato, come racconta lui stesso in questo dolcissimo testo: «Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani [...]» (Gal 1, 15).
In questi dieci anni abbiamo imparato che nelle parole, nei gesti, nelle scelte di vita personale di Papa Francesco c’è un amore interiore, di cui lui si sente testimone, che lo spinge, fino al limite delle forze, ad annunciare il Vangelo di Gesù. Vorrei dire dieci anni di Vangelo. Rimettere la Chiesa, e il mondo ancora una volta davanti al Vangelo; è una verità semplice, anche scomoda, ma condivisa dal popolo di Dio e accolta con rispetto anche dalle altre religioni e da tanti non credenti.
Aprire prima di tutto i nostri cuori, e poi le nostre parrocchie, le nostre università, senza l’ansia della paura, il timore della sconfitta, di chi fa finta di non sapere che trincerarsi nel legalismo è più facile che accettare la sfida del Vangelo — amare fino alla fine. Nell’attesa di poterLo incontrare.
*Parroco di Santa Maria ai Monti a Roma
Incaricato del Servizio pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Roma
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