Edith Bruck: l'incontro con Francesco, il calore che chiama l'abbraccio
di Edith Bruck*
Io purtroppo devo tutto al mio passato: i miei libri, i miei versi, i premi letterari, i riconoscimenti per la mia testimonianza... e forse, anzi sicuro, anche ciò che oggi quasi due miliardi e mezzo di cattolici nel mondo sognano, incontrare Papa Francesco, non a piazza San Pietro, ma nella propria casa, vederlo nel vano della porta di ingresso, increduli, emozionati di fronte alla sagoma bianca che apre le braccia con un sorriso tenero e inonda di calore che chiama l’abbraccio, mentre gli occhi affogano di lacrime.
«“È vero! È lui!», mi ripetevo, «È il Papa!», mentre restiamo abbracciati come se ci ritrovassimo dopo millenni. Io ebrea, sopravvissuta alla Shoah, come i miei avi, a indicibili sofferenze, per la quale, per le quali, Papa Francesco è venuto da me, chiedendo perdono, come avevano già fatto i due precedenti Papi, il polacco luminoso e il tedesco apparentemente a disagio, ma nella sinagoga, da dove delle loro parole ben poco è arrivato al pubblico attraverso la stampa e gli altri mezzi di comunicazione. Il Papa argentino sapeva bene che con la sua visita a casa mia avrebbe lanciato un messaggio a tutto il mondo, come testimoniano le numerose telefonate, che ho ricevuto da ogni dove. Dopo avermi consegnato i suoi doni, un grande volume del Talmud e la Menorah, simbolo di Israele, al contrario di noi, si sentiva subito a casa e parlava con le poche persone presenti in tono familiare, dolce, con il suo accento spagnolo che per qualche verso sembrava infantile, di quel bambino che è in lui e anche in me, due innocenti che si sono incontrati arricchendosi a vicenda di un bene immediato e duraturo. Mentre mangiava la torta di ricotta che avevamo preparato, insieme a tante altre cose sulla tavola, mi chiese cosa stavo scrivendo. Gli mostrai dal mio ultimo libro di versi una delle poesie, intitolata Educazione, lui la lesse e ne chiese una copia.
Il suo calore aleggia ancora nella casa, dove la sua figura bianca ogni tanto mi appare sulla poltroncina vuota, che l’attende con nostalgia, per festeggiare i dieci anni di pontificato, per tanti anni ancora con la sua umanità calda che sparge nel mondo e le sue parole, che sono un’invocazione di pace e fratellanza.
Dell’incontro, un vero “incontro”, ho anche scritto un libricino, chiedendo la sua prefazione, che ha fatto subito e mi ha mandato tramite il direttore dell’«Osservatore Romano», Andrea Monda, il mio “filo bianco” che mi tiene in contatto con il Papa. Un filo gentile, robusto e sensibile, dietro la corazza autodifensiva dovuta forse alle troppe richieste e al troppo lavoro. I miei successivi incontri e abbracci con il Papa sono stati meno intimi, ma sempre emozionanti.
Con Monda si è aperta anche la casa di Papa Francesco, dove abbiamo condiviso una treccia di pane, fatta dalla mia assistente Olga, e l’abbiamo spezzata e mangiata in una specie di rituale alla salute del mondo malato di violenza e carri armati russi, pronti a invadere l’Ucraina, Paese di Olga, dove non si vede la fine di una guerra insensata e la voce di Papa Francesco che invoca la pace è oggi inghiottita dal rumore delle armi del cielo, della terra e del mare.
Io non riesco a immaginare un altro Papa al suo posto e spero che il Dio nel quale lui crede tanto lo tenga in vita finché vivo io. Perché non penso che potrei avere un rapporto così singolare e quasi irreale con il suo successore. C’è una frase che lui mi ha sempre detto: «Io prego per lei, lei preghi per me». Lo faccio già, nelle mie preghiere mute.
*Scrittrice e poetessa
sopravvissuta alla Shoah
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